La crisi degli Stati e l’insorgenza nazionalitaria.

 

                                                             di Roberto PECCHIOLI

 

Parte I – Generalità. Europa.

Arthur Moeller Van den Bruck, uno dei maestri della Rivoluzione Conservatrice, scrisse che ogni politica che si rispetti è essenzialmente politica estera. Un popolo diventa nazione politica nel rapporto con ciò che gli è esterno, con l’altro da sé, il diverso, lo straniero. Affermava altresì, l’autore del Terzo Reich (Il Terzo Impero, per azzardare una traduzione non equivoca del titolo del grande saggio uscito nel 1923, due anni prima del suicidio del suo autore) che i nazionalismi sono stati alimentati, sfruttati, in molti casi creati di sana pianta dal liberalismo per i suoi scopi economici e cosmopolitici. Di qui la lunga battaglia a favore degli Stati “nazionali” e contro gli imperi, condotta durante tutto il XIX secolo e conclusa con la carneficina intraeuropea della Prima Guerra mondiale, l’assurda pace di Versailles, lo smembramento di tre venerandi imperi, la rivoluzione bolscevica in Russia del 1917, susseguente alla pace separata di Brest Litovsk, e quella tedesca del 9 novembre 1918 che mise fine alla Germania guglielmina, il Secondo Reich.

Dopo le tempeste d’acciaio, il fuoco e il veleno chimico che misero in ginocchio le migliori gioventù europee nella terribile guerra di trincea dal 1914 al 1918 emersero tre vincitori: il liberalismo economico di stampo anglosassone; l’egemonia statunitense realizzata dal presidente Wilson e dalla sua creazione mondialista, la Società delle nazioni; gli Stati cosiddetti nazionali fatti sorgere o consolidati dalle ceneri dell’Austria Ungheria, dell’Impero Ottomano e della stessa Germania unificata da Bismarck meno di mezzo secolo prima nel nome della Prussia.

Un secolo dopo le trincee, molto è cambiato, ma il trionfo del modello globalista e cosmopolitico non ha affatto condotto il mondo, ed in primis l’Europa che ne era stata guida e modello per secoli, ad un assetto definitivo. Lontani dalle utopie millenariste della fine della storia (Fukuyama e il millenarismo statunitense) o del pacifismo (Kant ed il suo sogno della pace perpetua come esito dell’imperativo categorico della ragione), la globalizzazione non ha spento i popoli. Non ancora, comunque. Si potrebbe anzi azzardare che nel mondo, ed anche in Europa si aggira, in questo tratto del Terzo Millennio, uno spettro che non è vano definire insorgenza nazionalitaria.

Scopo del presente elaborato è prenderne atto, analizzarne gli elementi e le ricadute positive, indicarne i limiti e, purtroppo, gli interessi globalisti che ne alimentano diversi tratti e non pochi filoni, nella prospettiva di chi ama le patrie, i popoli e le nazioni, non sempre gli Stati e soprattutto vede nel mondialismo apolide e neoliberale il nemico delle comunità e delle nazioni.

La nazione, come soggetto politico è stata inventata dalla rivoluzione francese del 1789. Fu attraverso una vera e propria ipostatizzazione della “nation” che sorse il concetto moderno di Stato, sorretto peraltro, in Francia, dalla persistenza della struttura burocratico amministrativa dell’Ancien Régime, dimostrata acutamente da Tocqueville, scienziato della politica ed egli stesso brillante uomo di governo. Come comprese nel corso del drammatico Novecento Carl Schmitt, le grandi categorie politiche, così come le narrazioni ideologiche, non sono che concetti teologici secolarizzati. Non stupisce quindi del tutto che la sacralizzazione della nazione sia venuta all’epoca soprattutto dall’abate Sieyès, l’ex vicario di Chartres teorizzatore del Terzo Stato, cui si deve, tra l’altro, un grave fraintendimento che ha attraversato oltre due secoli, ovvero l’assimilazione dei termini di popolo e nazione, che non sono affatto sinonimi e che, semmai, consentono di sostituire, con esiti assai negativi, la sovranità nazionale (ovvero, di fatto, statale) alla sovranità popolare.

L’Ottocento positivista condusse all’apparente razionalità degli Stati nazionali, a partire dalla rivoluzione del 1848 e sino all’inferno bellico concluso nel 1918. La verità, tuttavia, è che i cosiddetti Stati nazionali frutto di quella lunga temperie spesso non possedevano quell’unitarietà spirituale, etnica e linguistica che ne doveva essere presupposto, bensì erano nuovi, più piccoli mosaici rappresentativi di interessi e preferenze dei ceti dominanti, la nuova borghesia industriale e liberale nazionalista per tornaconto. Al termine del XX secolo, dopo le tragedie della secondo conflitto ed il crollo del comunismo, l’universo liberale finanziario ed industriale ha gettato la maschera ed ha rivelato la sua vera vocazione, quella del superamento degli Stati, tesa all’instaurazione di un ordine mondiale globalista e globalizzatore in mano ad una cupola oligarchica da cui escludere i popoli e gli Stati. In quest’ottica, il piano alto, la torre di guardia del potere ha favorito nuove disgregazioni.

Le ingiustizie statali e nazionali del passato, frutto delle scelte dei medesimi gruppi, venivano adesso utilizzate come arma per disarticolare gli Stati – unico forte argine ai loro interessi finali – e favorire una vasta insorgenza nazionalitaria. Divide et impera, infine, come è antica abitudine di chi detiene le vere chiavi del potere. Limitiamoci all’analisi dell’Europa e delle sue propaggini, giacché nel mondo orientale ed africano la questione è ancora più complessa ed aggravata dalle antiche e nuove ingerenze coloniali delle potenze europee, degli Stati uniti ed adesso anche della Cina.

Il caso geopolitico di scuola è lo smembramento dell’Unione Sovietica. L’antico impero che fu degli Zar e che Stalin portò alla massima potenza dopo la carneficina del 1939-1945 – detta dai russi “la grande guerra patriottica” con circa 20 milioni di vittime! divenuto URSS è imploso in pochi anni, vittima della propria inefficienza, del burocratismo e della gabbia ideologica in cui si era rinchiuso. Non ci volle una guerra per decretare la fine: gli stessi Gorbaciov prima, Eltsin dopo, chiusero l’esperienza del comunismo reale novecentesco. Gli Stati Uniti ne approfittarono per favorire una drammatica spoliazione e spartizione dell’URSS in alleanza con i satrapi ex comunisti delle grandi repubbliche federate asiatiche. Ad Ovest, con la collaborazione soprattutto della Germania, riesumarono non solo le repubbliche baltiche, annesse solo dopo il 1918, ma lavorarono attivamente per sfruttare i sentimenti anti sovietici ed insieme anti russi di altri popoli. Un guazzabuglio territoriale e geopolitico persino più complesso di quello successivo ai due eventi bellici del secolo, vere e proprie guerre civili intraeuropee, secondo l’intuizione dì Ernst Nolte.

Invero, si trattò anche di una vendetta della storia e dei popoli, poiché l’URSS fu la prima compagine statale ed imperiale nata su esclusiva base ideologica: la sua bandiera era rossa, il colore del comunismo, il suo nome non aveva riferimenti storico territoriali. La parola chiave era Soviet, ovvero i consigli di base del comunismo bolscevico, per il resto non si trattava che dell’unione identità il cui tratto distintivo era la statalizzazione dei mezzi di produzione. Il predicato era una scelta economica: repubbliche socialiste secondo il modello dei soviet rivoluzionari leninisti. Espulsi dall’internazionalismo proletario, i popoli e le nazioni rinascevano dopo tre quarti di secolo. Levatrice, disgraziatamente, fu ed è l’altra forza apertamente cosmopolita, antinazionale ed antipopolare, quella del liberalismo diventato mondialista. Fratelli coltelli, ed il vincitore pur senza guerra aperta, sotto la bandiera a stelle e strisce, non fece prigionieri.

Il fuoco covava sotto le ceneri da decenni, in alcune situazioni da secoli, o almeno dall’Ottocento ardente di nazionalismo. I risultati sono adesso sotto gli occhi di tutti. Iniziò la Jugoslavia già nel 1980 alla morte di Tito, il dittatore comunista di nazionalità croata che riuscì a tenere insieme le plurime ed incompatibili anime degli slavi del Sud, portatori di due alfabeti, di almeno tre religioni, inestricabilmente uniti dalla geografia ed insieme divisi, come attestano le opere letterarie, come il celebre Ponte sulla Drina di Ivo Andric e gli stessi monumenti, come il noto ponte di Mostar. Fu la Germania, i cui interessi economici erano prevalenti nel nord della Jugoslavia, a soffiare sul fuoco, ed a favorire, nei convulsi anni successivi al fatidico 1989 ed alla riunificazione voluta da Helmut Kohl , accettata a malincuore dal francese Mitterrand, l’indipendenza della piccola Slovenia, della più grande Croazia, che determinò per contagio, insieme con la guerra alla Serbia, l’incendio bosniaco, già nel 1914 scintilla della prima guerra mondiale, tra esacerbati nazionalismi, rivalità etniche, ragioni religiose, impossibilità di dividere i campi in lotta per aree omogenee se non attraverso deportazioni di massa e milioni di profughi sradicati.

Ne fece esperienza la minoranza italiana in Dalmazia dopo il 1918 e la maggioranza degli istriani e dei fiumani di sentimenti italiani durante e dopo la seconda guerra, sino all’esodo del 1947, che si protrasse sino alla metà degli anni 50 per gli italiani della Zona B del cosiddetto Territorio Libero di Trieste (Capodistria, Umago, l’entroterra sino a Buie).

Se non altro, si comprese che le nazioni esistono, e così le etnie ed i popoli. Dall’Europa centrale ai Balcani la miccia esplose ovunque. Gli imperi avevano mantenuto una pace discontinua, ma i turchi non si erano vergognati di cacciare dall’Asia Minore centinaia di migliaia di greci ivi insediati da secoli, anzi da millenni, e di sterminare gran parte del popolo cristiano degli armeni. Del resto, un limite degli imperi è quello di necessitare di un centro di gravità, l’Austria per gli Asburgo, la Turchia anatolica per gli Ottomani, il mondo russo europeo per gli Zar e poi anche per l’URSS, la Prussia per il secondo Reich di Bismarck e Guglielmo II.

Uguale considerazione, tuttavia, vale anche per i maggiori Stati nazionali europei, anche quelli di più antica formazione. La Francia fu sempre Parigi e disprezzò spesso la sua “provincia”, con le numerose minoranze nazionali e linguistiche frustrate e disperse dalla Rivoluzione e per i due secoli successivi. La Gran Bretagna non è che la dimensione imperiale domestica dell’Inghilterra egemone, con il risorgente caso scozzese e l’Irlanda sfruttata, schiacciata, umiliata per secoli. La stessa Germania visse, dopo le contese durissime delle guerre di religione e la disfatta della guerra dei Trent’anni (prima metà del XVII secolo) il rompicapo di una spinta territoriale verso Est (Drang nach Osten) frenata dalla Russia e dall’impero asburgico, e la presenza di milioni di tedeschi in Boemia, Slesia e nel Baltico, talora in maggioranza nel mare slavo, più spesso minoranza culturalmente ed economicamente egemone.

Quanto alla Spagna, nata come Stato monarchico e come nazione nella lunga faticosa riconquista del territorio occupato dagli arabi, unita territorialmente a seguito del matrimonio tra Isabella di Castiglia e Fernando d’Aragona, la scelta fu di uniformare Stato e nazione attorno alla Castiglia egemone, con grande fastidio dei montanari baschi e navarri e soprattutto degli energici mercanti catalani con lo sguardo sul Mediterraneo. Il caso spagnolo è quello più complesso, per svariati motivi storici, politici ed economici, e sta per esplodere con esiti imprevedibili a seguito della fuga in avanti del governo locale catalano, dominato dall’indipendentismo radicale, che ha proclamato un referendum secessionista per il 1 ottobre. Comunque vada, nulla sarà come prima in Spagna.

Come per la Gran Bretagna, le spinte centrifughe nel paese iberico protagonista della conquista dell’America si sono rafforzate da quando l’impero non esiste più. Ne parleremo più diffusamente nella seconda parte dell’elaborato, dedicata alla Spagna, ma le spinte alla disgregazione della madre patria sono iniziate con le costituzioni liberali dell’Ottocento, la progressiva indipendenza delle colonie d’oltremare, fino alla sconfitta nella guerra di Cuba con gli Stati Uniti ed alla perdita, nel 1898, dell’ultima colonia, le asiatiche Isole Filippine. In Spagna, anzi, la crisi susseguente ha dato il nome ad una intera generazione di intellettuali, detta appunto del 98, la cui influenza si è estesa per circa un trentennio.

Anche gli Stati meno grandi vivono situazioni analoghe. Sappiamo tutti che il Belgio, piccola monarchia cuscinetto di lingua e sentimenti francesi creata nel 1830, sta in piedi faticosamente, tra acute contrapposizioni tra la maggioranza fiamminga del Nord e la minoranza vallone francese del Sud, più per le pressioni europee – Bruxelles è una sorta di anodina capitale delle istituzioni dell’UE – che per la volontà delle popolazioni. Boemia e Slovacchia si sono divise senza problemi dopo la fine dell’URSS, ma il resto dell’Europa sudorientale resta un cantiere aperto e, nei Balcani, è la polveriera di sempre, con il giovane Kosovo albanese da cui sono stati espulsi i serbi che lo avevano abitato per primi, la Macedonia trovatasi indipendente dopo l’esplosione jugoslava in un puzzle pressoché inestricabile di lingue, dialetti, etnie, religioni, interessi criminali.

Ma non va dimenticato che in Bulgaria alla maggioranza slava e filo russa si contrappone una minoranza turca che spesso diventa ago della bilancia per la formazione di governi, mentre l’indipendenza moldava pencola tra sentimenti di Grande Romania e ritorno alla Russia, già realizzato di fatto dalla striscia di confine settentrionale chiamata Transnistria. Delle tensioni in Georgia, la patria di Stalin, con una guerra fomentata dai soliti americani e delle difficoltà in varie zone periferiche della Russia si parla poco, ma la situazione nell’ampia regione caucasica è tenuta sotto controllo per il ritorno, con Vladimir Putin, della visione imperiale russa.

La situazione più grave, da anni ormai, è quella dell’Ucraina. In Italia, dove ci disinteressiamo della politica estera e storia e geografia appaiono strambi passatempi per eruditi un po’ retrò (“a che cosa servono?” raglia l’italiota dalla perfetta padronanza di smartphone ed iphone) ignoriamo che quella grande nazione ha dimensioni doppie della nostra e sino a pochi anni fa, prima delle grandi emigrazioni e delle guerre, superava i 50 milioni di abitanti. Fu anche il granaio degli Zar e dell’URSS. Divisa tra ucraini e russo ucraini, con un nord ovest legato anche alla Polonia ed alla chiesa di Roma (a Leopoli sorge da secoli un’università cattolica), fu la culla del popolo russo, l’antica Rus di Kiev. Lì nacque la letteratura epica, Il canto della schiera di Igor, ed ucraino fu uno dei giganti della letteratura russa, Nikolaj Gogol, autore delle Anime Morte, dei Racconti di Pietroburgo e della saga di Taras Bulba, l’eroe nazionale ucraino. Lo stesso nome del paese significa confine, a segnalarne la vocazione ineludibile.

Dopo la secessione dalla Russia degli anni 90, non accettata da almeno un terzo della popolazione, di lingua e inclinazione russa, l’Occidente e gli Stati Uniti hanno sempre soffiato sul fuoco, provocando le cosiddette “rivoluzioni arancioni”, in realtà rivolte di settori ultranazionalisti di tendenza nazista, offrendo persino il personale politico direttivo. Non pochi dirigenti di governo e partiti ucraini antirussi sono emigrati di ritorno in possesso della cittadinanza USA. La guerra, tra alterne vicende, continua, ma non vi è dubbio che la soluzione meno negativa, l’unica in grado di scongiurare un conflitto che non ci vedrebbe solo spettatori, è una difficile divisione del paese, con la parte orientale, ricca di industrie e di risorse minerarie, restituita alla Russia o ad essa in qualche modo federata.

Gli strascichi di ben tre strappi storici successivi- 1918, 1945, 1989 – sono evidenti ovunque, pur se l’opinione pubblica dell’Europa occidentale, narcotizzata dal declinante benessere, spoliticizzata dal consumismo e moralmente disarmata dalle ubbie pacifiste, non ne sembra affatto consapevole, anzi tratta da visionario o pazzo chi ne parla. Il nome di Cipro è conosciuto solo ai finanzieri attratti dalle zone offshore della parte greca appartenente all’Unione Europea, ma la piccola isola del mediterraneo orientale, poco più estesa della Corsica, è divisa da un muro di inferriate e soldati armati per decine e decine di chilometri, da odi antichi e da una guerra che ha portato lo spostamento di un quarto circa della popolazione da una parte all’altra del territorio. Il muro di Nicosia, che divide la stessa capitale, è perfettamente in funzione, tra la parte greca aderente all’UE ed il nord occupato dai turchi, una cui minoranza abita da sempre nell’isola di Afrodite.

In compenso, è custodita gelosamente la finta indipendenza di minuscoli Stati come San Marino, Monaco, Andorra, Liechtenstein, la cui unica funzione, al di là delle rispettabili storie di ogni territorio, è di ospitare e proteggere, con il beneplacito dei grandi Stati e delle cupole bancarie internazionali, la parte più losca del mondo finanziario , dedito al riciclaggio di denaro sporco, all’occultamento degli immensi profitti del signoraggio bancario, della vendita delle armi, del traffico di esseri umani e della droga. Del resto, il piccolo Lussemburgo, patria di Jean Pierre Juncker, attuale oligarca dell’Unione europea, finita l’era delle miniere e del sudore di tanti immigrati italiani, è la piazza finanziaria specializzata nel clearing – Clearstream, Euroclear, e la loro controllata Swift, che taluno collega, attraverso un lungo blocco alla banca vaticana,  agli eventi che hanno condotto all’abdicazione di Benedetto XVI- ossia la camera di compensazione che regola tutte le transazioni finanziarie e interbancarie.

Dura anche il colonialismo britannico – vedremo se cambierà qualcosa con la Brexit – giacché Gibilterra è in Spagna, ma sullo stretto che divide Africa ed Europa sventola la Union Jack, dietro al quale si celano, o non si celano affatto, i peggiori affari di ogni specie; le isole del Canale, nella Manica, sono di fronte alla Normandia francese ma appartengono alla Corona britannica, pur non facendo parte del Regno Unito. Un altro dei troppi paradisi fiscali, Guernsey dove Victor Hugo esiliato scrisse I Miserabili e Jersey culla di una nota razza bovina.

Pare insomma che, se non proprio tutto, molto cambi, nel nostro continente, affinché nulla cambi per i grandi gattopardi, che sono contemporaneamente iene e sciacalli, come capì Giuseppe Tomasi di Lampedusa in un brano famoso del suo romanzo, posto sulle labbra del perdente Principe di Salina. Furono nazionalisti, poi imperialisti, adesso cosmopoliti e globalisti, ma sempre per i loro interessi peggiori, e sempre contro i popoli. Adesso usano il disagio delle nazioni, specie delle piccole patrie senza Stato, quelle dalle “lingue tagliate” e senza sovranità, qualche volta prive di un territorio definito, per indebolire gli Stati ed impedire la nascita di un Europa forte, libera e confederale, davvero unita, nell’essenziale, dall’Atlantico alla Russia. Fomentano separatismi, inventano nuove nazioni, soffiano sul fuoco da Nord a Sud, da Est a Ovest. Quasi nessuna delle compagini statali è immune dal contagio, che, va detto, non di rado, ha radici in vecchie ingiustizie e prevaricazioni cui si risponde con azioni di segno uguale e contrario.

La Brexit, al di là del caso scozzese, che probabilmente si risolverà senza strappi con ulteriori concessioni di Londra, riaprirà il vaso di Pandora irlandese. Ci sono già almeno due segnali: il primo è la partecipazione – la prima nella storia – del partito unionista dell’Ulster al governo britannico, il secondo è l’inquietudine, per non dire l’agitazione che attraversa l’Irlanda repubblicana e l’ampia minoranza cattolica e irredentista delle sei contee del Nord. Lassù, dove non sono certo sopiti gli odi di una guerra civile strisciante interminabile, la demografia sta cambiando con una certa velocità. In almeno due contee, l’elemento cattolico, tendenzialmente ostile alla Gran Bretagna, è divenuto maggioranza, e la vecchia partizione – due terzi unionisti protestanti, un terzo cattolici filo irlandesi – è ampiamente superata, e ci si avvia ad un’Irlanda del Nord divisa a metà. Ciò non sarà senza conseguenze, come dimostra il caso belga, in cui la tradizionale supremazia della componente francese vallone si è infranta contro la superiore vitalità demografica fiamminga supportata da una crescente forza economica. L’incomunicabilità tra le due parti è tale che nel Brabante, la regione centrale del Belgio, accanto alla storica città universitaria fiamminga di Lovanio è sorta, per i francofoni, Louvain-La–Neuve.

Nelle tre repubbliche baltiche, le prime ad aderire all’Unione Europea tra i vecchi satelliti sovietici, non è risolta la condizione di cittadini dimezzati, o di non cittadini, della popolazione di origine russa, particolarmente numerosa soprattutto in Lettonia. L’ombra più lunga è quella proiettata dalla Nato, ossia un’alleanza militare a trazione americana, creata in funzione antisovietica durante una tramontata stagione politica, che aggrega, con l’Europa occidentale, le nazioni dell’area centrale ed orientale del continente in un’antistorica funzione antirussa, nell’interesse antieuropeo di una potenza atlantica come gli Stati Uniti. Vale la pena rammentare che l’acronimo Nato significa Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico.

Se la storia marcia più veloce della politica, come anticipavamo all’inizio, il fronte più caldo è adesso quello spagnolo. Non può essere sottovalutata la sfida portata dall’orgogliosa Catalogna, decisa, per la verità molto più nelle sue istituzioni e nelle élite culturali che nell’insieme della popolazione, a chiudere un rapporto con la Spagna che è nato con l’unità statuale del paese iberico, quasi cinque secoli e mezzo or sono.

Dal 1 ottobre, data del referendum proposto dal governo regionale, la Generalitat, ma vietato da Madrid, nulla sarà come prima in Spagna e le scosse potrebbero lambire o addirittura attraversare un’Europa dove la storia ha ripreso a correre, pur se in direzioni contraddittorie e forse impazzite. Vale la pena approfondire il tema, nella seconda parte della presente riflessione.

ROBERTO PECCHIOLI