“Godi la vita”

 

“Godi la vita.  La vita finirà come si rompe un filo d’argento, o come va in pezzi una lampada d’oro, come s’infrange una  brocca per l’acqua e si schianta la carrucola del pozzo. Il tuo corpo ritornerà alla polvere della terra dalla  quale fu tratto; il tuo spirito vitale tornerà a Dio che te l’ha dato . . .In fin dei conti una sola cosa è importante: Credi in Dio e osserva i suoi comandamenti. E questo solo vale per ogni uomo. Dio giudicherà tutto quel che facciamo di bene e di male, anche le azioni fatte in segreto”.

 

(Ec 12:6,7,13,14)

 

Il latente (ritenuto tale) pessimismo che vela le pagine di questo libro sacro fa da contraltare all’impulso  difensivo di autoconservazione della felicità o, sarebbe più corretto dire, di istintiva bramosia della sua  ricerca, elemento pur presente in tutti i laconici tentativi dell’autore di sperimentarne i benefici imperituri.  Quella che appare come una sorta di disperata realizzazione di una vocazione godereccia, sullo strascico di un malinteso “carpe diem”  – oggi per lo più “sessantottinamente” identificato con l’orgone di Wilhelm  Reich, discepolo estremista del pansessualismo freudiano, vero “ispiratore” della rivoluzione sessuale…a  suo dire, panacea per ogni male dell’anima e del corpo – in realtà dipinge un tratto di una feroce e spietata  verità presente nella sacra Scrittura: il tempo passa e se non sarai capace di godere della tua vita, essa ti lascerà solo vanità.

Gli ebrei, abituati a vivere nel deserto o ai confini con lo stesso, si sono sempre caratterizzati da uno spirito  drasticamente concreto, pratico. La Scrittura ispirata risente di tale contesto; del resto il fine preposto è  quello della salvezza, quindi pochi giri di parole in merito ad altro: tutto quello che non è funzionale a tale  scopo viene tolto, rimosso o neppure concepito. Questo il motivo per il quale poche o del tutto assenti  sono le ampollose speculazioni filosofiche, come quelle per esempio della lussureggiante India sulla  monistica coincidenza tra essere e non-essere; il deserto chiama la sopravvivenza ed essa ti spinge all’essenziale. Del superfluo, non sa che farsene.

Del resto e a ben pensarci proprio tale spirito pratico ha da sempre caratterizzato il popolo eletto; spirito  che “riduzionisticamente inteso” in accezione completamente de-spiritualizzata, porterà i giudei ad avere  sempre un’incredibile capacità di saper fiutare gli affari: dall’Egitto a Babilonia, dalla Germania agli USA,  dalle multinazionali alle banche.

Così Qohelet non va per il sottile; arriva al punto, togliendo ogni tipo di illusione; disegna una vita priva di senso, ridotta ad hebel vano e fumoso, percependo la storia come catena ciclica e deterministica in cui per  volontà divina si è imprigionati, nell’oggettiva incomprensibilità dell’essere, del mondo, dell’ “opera di Dio”.

 

Forse Qohelet , 2987 parole in 222 versetti – il libro sacro dell’Ecclesiaste, reso in greco per assonanza (ekklesìa) del suo significato originario, qahal, “assemblea di persone”; abbiamo tuttavia letture diverse in  ordine all’etimologia del termine; forse la radice ebraica di provenienza è qhl, usata nella forma causativa  (hifil), «convocare, radunare l’assemblea » ovvero in quella riflessiva (nifal), « radunarsi » – è passato alla storia come uno degli scritti più pessimisti di tutti i tempi.

Voltaire lo liquidò come scritto da un epicureo, un materialista depresso, al punto da indignarsi per la sua  collocazione nel Canone. Il filosofo francese, sempre più preoccupato a denigrare che ad ascoltare, resta al margine del significato profondo di quelle pagine e non sa intravederne lo spessore, come l’odierno spirito secolarizzato è incapace di cogliere la bellezza delle beatitudini, relegandole vincoli e lacciuoli di ogni tipo.

Impossibile comprendere Qohelet come imperscrutabile capire il senso di una croce e di un Dio che muore  in essa. Entrare nella comprensione di Qohelet, è trovarsi di fronte al dramma del peccato e delle sue conseguenze, senza poterlo appieno comprendere. L’uomo è nudo, come Adamo ed Eva in Genesi 3; deve ricorrere agli alberi per nascondersi; ma non riuscirà a ritrovare appieno la sua identità, perché il vuoto in lui generato procura una sorta di incomunicabilità tra lui e Dio, tra lui ed il mondo. Creatore, creato, individuo…elementi di un tutto che dovrebbe coesistere in armonia profonda, svanisce di fronte al fumo, al nulla di un alito impermanente.

Qohelet approccia al medesimo esito di Siddharta Gautama: la vita è dolore, tutto scorre in un’incessante prigionia; la ricerca della liberazione, secondo Budda, potrebbe rinvenirsi nella presa di coscienza dell’inutilità del desiderio; tutto è imprigionato in una ruota temporale ed esistenziale che propone e ripropone nessun cambiamento sotto il sole; sembra quasi di assistere all’inesorabile percorso del samsara, «quel che è stato sarà, quel che si è fatto si rifarà» (1,9); Qohelet arriva ad una conclusione simile, anche se non coincidente; osserva i comandi di Dio, in questo è il tutto dell’uomo. Cos’altro è questo, se non concretissima visione dell’uomo del deserto, che va all’essenziale e denigra il resto, come spazzatura inutile.

Dio stesso è rappresentato ad una lontananza irraggiungibile, si erge incomprensibile e dall’inevitabile apofatico esito. La stessa distanza che passa tra il fallimento apparente di una morte in croce e quello di una resurrezione di vita sembra riproporsi tra l’abisso di disillusione assoluta presente nelle medesime parole di Qohelet e la speranza dolce dei Vangeli (ad es.).

Habel habalîm hakkol habel, il celebre Vanitas vanitatum et omnia vanitas della Vulgata.  Habel è lemma che conduce ad uno spettro ampio di significati: essi vanno dal soffio caldo, al vapore, al fumo, all’alito, fino al nulla, alla polvere, al vento…la dominanza del labiale b/v richiama l’idea del respiro, concetto biblicamente fondante la vita e di converso la sua caducità. Di tale vacua esistenza sono tacciati gli idoli “spazzati via dal vento (rûah), un soffio (hebel) li porterà via” (Is 57,13).  Hebel che ben si attaglia alla medesima realtà del vivere umano “L’uomo è simile a hebel, i suoi giorni sono come l’ombra che passa” (Sal  144,4); “i miei giorni sono solo hebel” (Gb 7,6; cf Sal 62,10; Sal 39,6-7); “Inutilmente mi sono stancato, per  nulla, per un hebel ho consumato la mia energia” (Is 49,4; cf Gb 9,29; Sal 94,11).

Hebel rappresenta e significa ciò che non produce esito, inefficace; è la traduzione semantica della medesima caducità strutturale dell’uomo; una sorta di “buco nero”, capace di attrarre sia il bene sia il male.  Esso si colloca addirittura al di là del classico schema interpretativo della storia (binomio “fedeltà-benedizione” ed “infedeltà-maledizione”, cui fa da contraltare quello retribuzionistico, in stile karmico,  “delitto-castigo; giustizia-premio”. Schemi a priori non rifiutati, ma ritenuti parziali e non esaustivi). Del  resto fu Gesù stesso a correggere apertamente queste convinzioni; in più di un episodio, ci invita a non  giudicare il male che incombe sul prossimo, per essere pronti ad essere salvati, mediante la conversione a  Lui. In questo Vangeli e Qohelet, letti sinergicamente, sono davvero irruzione contro ogni tipo di  perbenismo storico e via d’apertura totale ad un trascendente davvero inafferrabile.

Qohelet realizza quello che san Paolo spiegherà ai primi cristiani di Colossi: “siete morti”…. Chi possiede, viva come se non possedesse… “passa la scena di questo mondo”… o quello che Gesù insegnava sulla  fugacità della vita, “stanotte stessa ti sarà richiesta”, l’erba del campo che oggi è e domani viene bruciata…il  non poter allungare un minuto della propria esistenza o fermare l’incedere del tempo che rende canuti…Qohelet mette sul piatto della bilancia l’illusione dell’essere; il vano cercare la gioia e la felicità nelle cose  che facciamo o che esistono…eppure il messaggio non è disperante, non lo è, ovviamente se troviamo chi  sia in grado di riempire quel vuoto con “forma di Dio”, che abita nel cuore.

Siamo di fronte al punto massimo della parabola in caduta libera; da qui si può solo risalire. L’uomo ha bisogno di sentirsi nulla! Ha necessità di percepire il vuoto dentro di sé; se non arriva a sperimentare l’inutilità del proprio vivere e la miseria del suo operare, non sarà in grado di attrarre la misericordia  dell’Altissimo, che svela i suoi segreti ai piccoli. Qohelet è come l’anziano disincantato e non rinsavito che dall’amarezza del proprio cuore sperimenta la necessità di sentirsi e dichiararsi peccatore.

È una esperienza di preghiera, che se è davvero autentica si muta in metanoia; cambiamento di vita. Non si  tratta solo di confessare il peccato; no! È di più; si tratta di comprenderne la matrice, l’inconsistente inutilità dell’essere e del vivere.

Siamo nulla. “Polvere sei ed in polvere tornerai”. C’è molto di più del mero superamento di maya; l’illusione dell’esistente che rinveniamo nel buddismo e nel pensiero indù in genere, è votato alla riscoperta del divino in sé, superamento del dualismo apparente, per sfociare nella liberazione dell’ “indiarsi”. Il sapersi divino è tuttavia l’altro lato della medaglia che invero sfocia nella delusione dell’inesorabile esito della morte; da esso soltanto Cristo fu capace di trarsi fuori. Solo un sepolcro resta vuoto lungo il percorso della storia.

In Qohelet non esiste questo salto; non c’è nulla. Il grido di disperazione sorda e senza lacrime è attenuato

 

dal finale laconico, ma sferzante: “questo è il tutto dell’uomo”. Vana non soltanto ogni speranza di gioia e di soddisfazione, ma perfino vano anche ogni vivere etico; l’uomo non è in grado di fare nulla di buono nella vita. Non fa forse eco a tali presupposti la frase di Gesù “senza di me non potete far nulla”?!

Qohelet, lungi dall’essere un inno distruttivo e disfattista è proprio questo; preparazione del terreno nel quale sarà seminato e germoglierà l’albero della vita, Cristo Gesù; è esercizio spirituale e mentale. Avete mai provato a pregare con tale consapevolezza: io non sono! E non c’è nulla che sia in questa vita; nulla che valga l’essere; tutto è vuoto, hebel, non-senso.

Questa era la condizione dell’uomo senza il Redentore. A cosa poteva aspirare? Del resto l’AT è perfettamente coerente con tale immagine di fondo; non si prodiga in promesse ultraterrene; pochi sono i riferimenti alla vita ed alla Vita eterna. Il vero salto lo farà Gesù. Ma che sia Lui a farlo ha un senso; non a caso Egli venne sepolto in un “giardino”, in una tomba nuova; la morte di Gesù apre alla resurrezione e quindi alla vita; il giardino di Eden, il cui accesso era negato dopo il peccato, si apre di nuovo per mezzo dell’offerta che di sé fa il Figlio dell’uomo.

Quindi nessuno scandalo per Qohelet! Di cosa ci dobbiamo scandalizzare: del fatto che il peccato abbia  ridotto tutto al nulla, al vuoto, al non-senso? Del fatto che abbia disintegrato la nostra vita, riducendola in  polvere? Di aver prospettato un avvenire di ombre nello  שאול, Sheol?

In nessun modo! Qohelet ci sta insegnando invece l’essenziale; forse quello che ai più sfugge è il fatto che  non soltanto il suo insegnamento apra ad un’altra dimensione, quella della centralità di Cristo – centro dell’universo e del creato, per il quale ed in vista del quale tutto è stato fatto – ma che da quel medesimo insegnamento si sia portati a non disprezzare nulla di quanto Dio abbia fatto.

La consapevolezza che tutto sia vacuità e nulla, non deve comunque indurre l’uomo a desistere: godi la

 

vita! Approfitta del tempo, non lasciar passare un attimo senza vivere appieno. Citiamo (9,7-9): “Va’, mangia felice il tuo pane, bevi con cuore lieto il tuo vino perché questo è quanto Dio vuole che tu faccia. Bianca sia in ogni tempo la tua veste, il profumo mai manchi sul tuo capo. Godi la vita con la donna che ami in tutti i giorni di questa vita vuota che ti sono concessi sotto il sole, in tutti questi giorni vuoti ….”. Del resto  la radice ebraica smh, “godere,  essere allegro” ricorre ben 17 volte nel libro; al leggerla con R. Gordis, “per  Qohelet la gioia è l’imperativo categorico di Dio per l’uomo ma non in senso anemico o spiritualistico bensì come esperienza tangibile e corposa che si manifesta nei piaceri fisici e nell’attività mentale, nella contemplazione della natura e nei piaceri dell’amore”.

Una gioia quindi concreta, essenziale, da uomo del deserto. Chiara conferma di ciò troviamo nella tradizione liturgica sinagogale, che utilizzava Qohelet per la festa delle Capanne: “Sukkòt (Capanne) è la stagione della nostra gioia e il libro di Qohelet loda la gioia”,  solennità autunnale molto allegra e intensa.

Ma questo certamente non consente di capovolgere il latente e dominante pessimismo di fondo del testo.

Dobbiamo leggerlo per quel che è, senza esasperarne i contenuti. Neppure infatti ci piace l’idea di chi lo utilizzi come fosse un esaltazione del laico argomentare, quasi un ammonimento alle sicumere del credente.

La verità è che Qohelet è parte della Rivelazione, non è tutta la Rivelazione e ovviamente non la esaurisce.  È chiaro, così come non è possibile decontestualizzare Qohelet, ma occorre leggerlo proprio nel Canone,  perché ogni Libro ispirato è funzionale alla vita dell’intero organismo della Rivelazione e non avrebbe senso leggerlo, tirandolo fuori da lì, così il messaggio di godere della vita, della propria donna, dei doni che la Provvidenza ci elargisce quotidianamente assume una connotazione ampia, ma determinata: essa è legata al “tutto dell’uomo”; Dio comanda la felicità, la gioia e perfino il piacere, ma tutto secondo le regole divine  fissate dalla sua volontà. Leggiamo infatti suggerimenti  nel paragrafo di 7,16-18: “Non esagerare con la giustizia, né esser troppo sapiente: perché rovinarti?! Non esagerare, però, neppure con la malvagità o con la stupidità: perché morire prima del tempo?! È bene aggrapparsi ad una cosa senza però staccare la mano dall’altra: chi rispetta Dio riesce in entrambe”. Equilibrio che significa salvezza e cammino verso la felicità.

Qohelet procede verso una demitizzazione della sapienza tradizionale; ironizza sia sul “protofariseismo” (autosufficienza della legge) sia sul “protosadduceismo” (scetticismo nei confronti della legge); questo è utile anche a noi per evitare di farsi contaminare dal lievito dei farisei o da quello di Erode, sfociando in un cristianesimo formalmente ineccepibile, ma vuoto di contenuti o approfittando della divina libertà dei figli, per sgretolarsi nella passioni e nella carne.

Seguire i desideri dello Spirito, partendo dal nulla del proprio stato; questa è la vera chiave per godere appieno della vita…il resto è solo hebel.