IL DIO NASCOSTO E RIVELATO settima parte – Luigi Copertino

IL DIO NASCOSTO E RIVELATO

 SULL’IMPOSSIBILE “CANONIZZAZIONE” DI MARTIN LUTERO

RAGIONI STORICHE, SPIRITUALI E TEOLOGICHE

 SETTIMA PARTE

CHIESA ED EUCARESTIA: NESSO INSCINDIBILE

Abbiamo detto che nell’Eucarestia siamo noi ad essere incorporati a Cristo. Questo perché lo Spirito Santo trasforma il pane ed il vino nel Corpo e Sangue di Cristo ma anche coloro che vi partecipano incorporandoli a Lui e facendo di essi il Suo Corpo Mistico, ossia la Chiesa, del quale Cristo è il Capo e l’Eucarestia il Cuore. Per una migliore comprensione della teologia eucaristica non bisogna dimenticare che essa ha le sue radici nella teologia dei Padri della Chiesa e nella loro lettura della Scrittura. Per i Padri l’Eucaristia non è uno dei sacramenti ma è il sacramento/mistero della Chiesa. Essa, afferma Ireneo di Lione, costituisce la Chiesa come  “mistero” e come comunione che invoca la presenza del suo Signore, nell’attesa del compimento definitivo. In tal senso l’Eucarestia ha anche una valenza escatologica. L’invocazione Maranà tha dell’Apocalisse esprime proprio questa tensione già presente nell’Eucarestia quale anticipazione, presenza velata, della “parusia” di Cristo. La Chiesa, pertanto, è in una posizione di umiltà ed invocazione nei confronti di Cristo, suo Signore e Sposo.

L’Eucarestia è il presente che rinnova il passato attualizzando l’Unico Sacrificio della Croce. La Chiesa e la sua vita spirituale nascono dalla Tradizione che già contiene in sé anche il tempo escatologico. Il tempo di Cristo e l’epoca degli apostoli sono presenti ed attuali in ogni periodo della storia e della vita della Chiesa. Il visibile – le celebrazioni liturgiche, la successione apostolica, la gerarchia ecclesiale – e l’invisibile – la personale “preghiera del cuore” – coincidono nella Tradizione che vive nella Chiesa la quale, nonostante i molti suoi cambiamenti culturali e rituali registratisi lungo i secoli, può essere riconosciuta come sempre eguale, in ogni momento della storia, per via della sua identità sacramentale e spirituale.

Perciò l’Eucaristia è il centro della vita ecclesiale ma anche della vita dello spirito umano. La spiritualità cristiana si realizza nell’unione con Dio incarnato, crocefisso, risorto che ha la sua manifestazione sociale nella comunità gerarchica della Chiesa. Il cuore umano ed il creato hanno il loro centro nell’Eucarestia. La Cattolicità della Chiesa è Universalità ma bisogna stare attenti a non disincarnarla troppo dalla realtà storicamente concreta e corporea della Chiesa gerarchica altrimenti si fa l’errore contrario a quello di chi vorrebbe porre limiti ai confini della Chiesa. Perché se è vero che “extra Ecclesia nulla salus” non è lecito a noi stabilire in termini esclusivamente giuridici dove sono i confini della Chiesa che però da qualche parte sicuramente ci sono: altrimenti Essa sarebbe come l’hegeliana notte in cui tutte le vacche sono nere.

Se, come detto, l’Eucaristia costituisce la Chiesa nella comunione gerarchica, i fedeli, che partecipano al Corpo eucaristico, diventano consanguinei, concorporei di Cristo, incorporati a Lui. La cosa era già chiara ai Padri. San Massimo il confessore, ad esempio, afferma che «l’eucaristia trasforma i fedeli in se stessa, per cui essi possono essere chiamati “dèi” perché tutto Dio li riempie interamente. (…). Così tutti sono uniti in modo veramente cattolico, tutti si fondono per così dire gli uni negli altri». La comunione verticale con Cristo, travalicando spazio e tempo, fonda anche la comunione orizzontale tra gli uomini fino a comprendere persino la comunione con la creazione stessa.

San Gregorio Palamas, tra i più grandi teologi mistici del Cristianesimo orientale, insegna che lo Spirito Santo c’include nel Corpo di Dio tramite i sacramenti della Chiesa. Perché l’Eucarestia è anche una interpretazione liturgica del dogma della SS. Trinità, della creazione, della redenzione e della santificazione. L’Eucaristia manifesta l’opera di Cristo nella nuova creazione dell’uomo e del cosmo nello Spirito Santo grazie all’’unità dell’umanità con Dio. Lo Spirito Santo, che “esce” dal Cuore di Cristo, perché Spirito di Amore, entra nella creazione e invisibilmente riempie il nostro essere. Ecco il motivo per il quale la Chiesa è un sacramento e ci prepara al Regno e alla trasfigurazione finale e, quindi, è realtà corporea e visibile. Non può essere, come pensava Lutero, fideismo intimistico, invisibilità a-corporea. La Chiesa è il luogo della nascita dell’uomo nuovo riconciliato ed eucaristicamente riunito a Dio. La comunione al Corpo e al Sangue di Cristo fa vedere Cristo nell’uomo, mostra ciò che l’uomo è o potrebbe essere se l’accoglie.

San Francesco d’Assisi – che, quando in lontananza vedeva un campanile, si inginocchiava e adorava Gesù presente nella Santa Eucarestia – parlò dell’Eucarestia in modo del tutto simile a quello di san Massimo il confessore: «Tutta l’umanità trepidi – scrisse Francesco ai frati sacerdoti –, l’universo intero tremi e il cielo esulti, quando sull’altare, nella mano del sacerdote, si rende presente Cristo, il Figlio del Dio vivo. O ammirabile altezza e degnazione stupenda! O umiltà sublime! O sublimità umile, che il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, così si umili da nascondersi, per la nostra salvezza, sotto poca apparenza di pane! Guardate, fratelli, l’umiltà di Dio, ed aprite davanti a lui i vostri cuori; umiliatevi anche voi, perché siate da lui esaltati. Nulla, dunque, di voi trattenete per voi, affinché totalmente vi accolga colui che totalmente a voi si offre. Amen».

Il patriarca ortodosso Atenagora, quello dell’abbraccio fraterno con Paolo VI, si pone su questa linea, la linea della Tradizione, quando, nell’opera “In dialogo con il Patriarca Atenagora” (Parigi, 1976), afferma: «L’Eucaristia protegge il mondo e già segretamente lo illumina. L’uomo vi trova la sua filiazione perduta, attinge la sua vita in quella di Cristo, l’amico segreto, che condivide con lui il pane della necessità e il vino della festa. E il pane è il suo corpo e il vino e il suo sangue e in questa unità più nulla ci separa da nulla né da nessuno. … Esiste qui in terra un luogo nel quale non c’è più separazione, nel quale c’è solo il grande amore, la grande gioia. E questo luogo è il santo calice, il Graal nel cuore della Chiesa. E, di conseguenza, nel tuo cuore».

Molto significativo l’accenno al Graal, la Coppa del Sangue Eucaristico di Cristo (26).

L’Eucarestia è il Cuore di Cristo che batte nella vita della Chiesa e nella vita della persona che cerca la salvezza. E’ comunione nella SS. Trinità che si comunica ai fedeli in Cristo. L’Eucarestia è la comunione mistica che dà forma e struttura alla Chiesa. Comunione gerarchica perché il vescovo, o il sacerdote, è in comunione con i suoi fedeli, con gli altri vescovi e con il Papa. Il cammino della salvezza si trova nella comunione con Dio che si attua nella Chiesa che è la Vita di Dio, ossia la Santità, tra gli uomini e dentro gli uomini. La natura della Chiesa è comprensibile solo attraverso il mistero eucaristico, perché la natura stessa della Chiesa è eucaristica.

Il mistero eucaristico costituisce l’aspetto fondamentale della sacramentalità sacerdotale della Chiesa. Essa è il suo cuore. Nel momento della consacrazione del Pane e del Vino, secondo quanto ci assicurano i mistici, tutta la Chiesa celeste, purgante e militante – dalla Madre di Dio ai santi, dai vivi ai defunti in attesa di purificazione, dal clero al popolo – è riunita davanti all’Agnello. L’Eucarestia e la Chiesa costituiscono una realtà inseparabile. E’ per questo che lo Pseudo-Dionigi Areopagita affermava che l’Eucarestia è la forma stessa della Chiesa. La Chiesa è fondata sul miracolo eucaristico che ogni giorno si rinnova sugli altari del mondo. La Chiesa è mistero perché nel sacramento eucaristico si trasforma in realtà della vita nuova. «Ubi Ecclesia, ibi Spiritus et omnis gratia» diceva sant’Ireneo e dove è lo Spirito è il Regno. L’Eucarestia rivela e nasconde la santità di Dio. Cristo è presente nell’Eucarestia e dove c’è Eucarestia c’è la pienezza della Chiesa. Sacerdoti e laici formano il Corpo del Cristo, tutti partecipano dell’Offerta d’Amore di Cristo che si è immolato per noi.

Se la Chiesa è il Corpo di Cristo, anche l’Eucarestia è il Corpo di Cristo. Senza l’Eucarestia non c’è Chiesa né è possibile Eucarestia al di fuori della Chiesa. Chiesa ed Eucarestia si danno strettamente e reciprocamente proprio perché la Presenza Reale di Cristo caratterizza l’una e l’altra. Ed è per questo che Lutero, rescindendo tale legame, rescindendo il tralcio dalla Vite, ha avviato un processo di “seccamento”, di sclerosi, delle varie comunità protestanti. Senza l’Eucarestia, non solo per l’errata dottrina della consustanziazione ma perché è in esse cessata ogni trasmissione del potere sacramentale apostolico, la linfa della Vita ha cessato di arrivare ai gruppi protestanti, come dimostra la quasi totale desertificazione di queste realtà che, oggi, si reggono solo per sovvenzione governativa (né si può prendere ad esempio la falsa vitalità del protestantesimo evangelicale che è soltanto cloaca di millenarismo apocalittico e spesso politicamente strumentale).

Gesù Cristo è l’Adam Kadmon, l’Uomo Perfetto, sul quale è stato modellato, all’atto della sua creazione, Adamo ossia l’uomo. L’Adam Kadmon, che nel Genesi da il nome alle cose ossia conferisce ad esse l’essere, contiene principialmente tutte le forme. Egli è, pertanto, allo stesso tempo il Cuore di Dio ed il Cuore del Mondo. Egli che è Colui in vista del Quale e per mezzo del Quale tutto è stato fatto si piega, nella sua infinita misericordia provvidenziale, sulla creatura per salvarla. Colui che sostiene e regge tutto l’universo sin dall’origine era previsto che assumesse la carne umana per glorificarla. La paolina kenosi è spesso simboleggiata da un triangolo rovesciato. Tale simbolo svela un collegamento con il femminile, con l’aspetto “materno” di Dio Padre. Giovanni Paolo II, nell’enciclica “Dives in misericordia”, ci ha lasciato una bellissima esegesi, anche filologica, sulla radice della parola ebraica “rahamin”,che sta per il nostro Misericordia, esattamente intesa quale “avvolgimento uterino” da parte di Dio verso le sue creature. Infatti anche in arabo “utero” si dice “ràhim” ed ha la medesima radice di “misericordia” (“rahma”).

Ecco perché San Gregorio di Nissa poteva scrivere che “Adamo vive in noi”, nel senso che l’Incarnazione ha riprodotto, ricreato, l’unità umana. Come Corpo di Cristo, uniti nell’Eucarestia e nella Chiesa, abbiamo in noi il sangue di Cristo. L’unità della Chiesa è l’unità della natura umana restaurata in Cristo. Questa unità si realizza nell’Eucarestia. L’Eucarestia è l’atto salvifico con il quale Dio ci unisce a Lui nel Corpo di Cristo. I fedeli sono “ricreati” nel Corpo del Cristo perché sono incorporati allo stesso Corpo. Il Cuore della Chiesa è il sacramento dell’Eucarestia.

Gesù Cristo, Uomo Perfetto, è la radice della deificazione della natura umana. Per San Massimo il Confessore l’uomo unito a Cristo è la Chiesa perché nell’Eucarestia la comunione con Cristo ci trasforma nel Corpo di Cristo. Il nostro corpo umano diventa tempio dello Spirito Santo. La deificazione dell’uomo può essere solo azione del Santo Spirito e la Chiesa diventa luogo della ri-unione dell’umanità, che vive in Cristo, con Dio.

Lo Spirito di Cristo è lo Spirito della comunione e la sua opera consiste nel rendere possibile la comunione tra gli uomini. Il singolo separato dagli altri è, infatti, frutto del peccato. La Trinità stessa, infatti, è ad intra Comunione delle Tre Persone Divine ed è per questo che, contrariamente a quel che pensava Lutero, la Chiesa ha “personalità corporativa” fondata proprio sull’Eucarestia. Il mistero della Chiesa è il mistero dell’“uno” che è ad un tempo molteplicità. Nella preghiera eucaristica la Chiesa è santa e colui che presiede la comunità, il sacerdote, si identifica con il Cristo stesso, agisce “in Persona Christi”. Ma anche i fedeli sono, al loro livello gerarchico, Cristo che prega il Dio Padre nell’unità dello Spirito Santo.

«La Chiesa vive nell’Eucarestia – ha scritto Vladimir Zelinskij, un teologo ortodosso – e anche attraverso l’Eucarestia. Il mondo intero può essere visto come “liturgia cosmica”, che offre al trono di Dio tutta la Sua creazione. Ogni fedele porta il mondo in sé e deve portarlo al mistero eucaristico. La visione eucaristica del mondo ci apre la creazione dove l’Eucarestia non può essere oggetto o mezzo. L’Eucarestia è la rivelazione del cosmo. Nel contesto liturgico l’Eucarestia si rivela come manifestazione di tutta la Chiesa. La Chiesa conosce e celebra un solo sacramento cioè il mistero del Cristo che salva il mondo. In questo senso l’Eucarestia non può essere solo un mezzo della grazia, ma la sua realtà. Dall’inizio del cristianesimo l’Eucarestia era vista come “Sacramento dei sacramenti” che esprime il mistero della Chiesa stessa come sacramento. Il sacramento è primo di tutto una realtà divino-umana o come ritorno alla creazione nuova. Se il diavolo ci separa, il sacramento ci unisce nel Corpo di Cristo. La gratitudine è un motivo principale del canone eucaristico. Nell’Eucarestia la Chiesa si effettua come la creazione nuova e come il mistero della conoscenza. La conoscenza cristiana (Gv.17,3) è anzitutto la gratitudine. Nella gratitudine scopriamo anche ciò che possiamo chiamare l’antropologia eucaristica. L’uomo che crede è l’uomo che loda, che ringrazia, che torna nella sua memoria al mistero della salvezza rivelata nella vittoria del Cristo sul peccato tramite la Croce. L’anamnesis, la memoria sacra ecclesiale, non è separata dal ringraziamento. Il sacrificio del Cristo è commemorato nella gratitudine. La memoria ecclesiale come la forma della presenza del Cristo e la realtà stesso del Regno. (“Come il Padre l’ha preparato per me, Io preparo per voi un regno perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel Mio Regno” – Lc 22, 30). (…). Il sacramento – qualsiasi, ma prima di tutto l’Eucarestia – non si trova in opposizione alla creazione o alla creatura, ma rivela la sua natura autentica. Perciò l’Eucarestia ha carattere cosmico ed escatologico. Essa include in sé tutta la creazione, perché la creazione è già il Regno, ma il Regno nascosto. Il sacramento è rivolto verso questo Regno del secolo futuro. L’essenza della Chiesa è il cammino verso il Cielo, e l’Eucarestia è il mistero di questo cammino anche nella memoria o l’anamnesis. L’anamnesis che contiene anche la memoria della Croce come vittoria sul peccato, è la presenza mistica del cammino all’interno del nostro essere che ci porta al Regno. Ma l’anamnesis è anche la memoria del futuro, un atto escatologico. “Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine” (Ap.22,13). “Vieni, o Signore Gesù” (Ap 22, 20). La memoria del Regno aperta al Ritorno del Signore. Il corpo destinato alla risurrezione è lo stesso corpo, non di un’altra sostanza, ma quello che è stato creato da Dio e cambiato o ricreato nell’atto eucaristico. Quando il sacerdote dice: “Questo è il Mio Corpo” le sue parole o piuttosto le parole di tutta la Chiesa cambiano la natura dell’offerta. Così questa parola del Salvatore, una volta pronunciata, è stata e sarà sufficiente per compiere il più perfetto sacrificio sulla tavola di tutte le chiese, dall’ultima Pasqua di Gesù Cristo fino ai nostri giorni e fino al suo avvento. Il pane diventa il pane del cielo perché su di esso viene a posarsi lo Spirito, ma rimane l’apparenza del pane com’è. Tutta la liturgia è già la tramutazione: la materia, il rito, il simbolo sono riportati alla loro origine di creazione. Ciò che è lì davanti a noi non è l’opera del potere umano. Colui che ha fatto questo nell’ultima cena lo fa ancora adesso. In quanto a noi, il nostro compito è quello di servitori, ma è Lui che santifica e trasforma. “C’è (…) un solo Cristo, tutto intero qui e tutto intero là, un solo corpo (…). Noi non offriamo un’altra vittima, come il sommo sacerdote di allora (dell’Antico Testamento); è sempre la stessa, o piuttosto noi facciamo il memoriale del sacrificio” (San Giovanni Crisostomo). Il sacrificio eucaristico non è una ripetizione del sacrificio sul Golgotha (che è irrepetibile), ma la sua rinnovazione, incruenta, qui ed ora, la sua attualizzazione che travalica il tempo e lo spazio mediante l’atto liturgico. Nell’offerta riconosciamo il Cristo stesso. La liturgia e la Chiesa stessa sono possibili perché il sacrificio del Cristo è già stato fatto e noi lo commemoriamo e lo riconosciamo nell’azione della Chiesa. La commemorazione non è un semplice ricordo, ma la proclamazione dell’identità essenziale fra il sacrificio del Cristo con il sacrificio eucaristico che si fa in Chiesa» (27).

MEMORIALE? COSA SIGNIFICA?

Al momento dell’offerta del pane e del vino sull’altare, la Chiesa è riunita nella “commemorazione”. L’offerta eucaristica è, infatti, “memoria attualizzata”. Nell’Eucarestia il Signore si volge verso la Sua creazione perché Dio ne ha “memoria” e ci cerca per salvarci nell’Amore. Dio si ricorda dell’uomo donandogli la vita e l’uomo è chiamato ad avere memoria di Dio accettando il dono della vita, rispondendo al Suo Amore. L’Eucarestia esige il  “memoriale” (anamnesis) dell’unico Sacrificio della Croce sul Golgota. Questo Sacrificio, sempre presente nella “memoria” di Dio, è reso presente ed attuale, ossia efficace qui ed ora, dalla Chiesa nell’Eucarestia. Il “memoriale”, è termine fondamentale nella liturgia e che va ben spiegato perché la deviazione protestante ne ha fatto abuso modificandolo sin nel profondo delle sue radici etimologiche. Le quali sono ebraiche e non hanno nulla a che fare con l’idea del mero ricordo di un fatto ormai passato ed inattuale come nella prospettiva protestante. Al contrario, la sua origine ebraica ci consente di affermare che quel che noi traduciamo con “anamnesis” o “memoriale” è un termine il cui significato pregnante è esattamente quello di “rendere attuale, attualizzare, invocare”. Il termine ebraico “zikkaron”, appunto tradotto con “memoriale”, ha un’accezione legata all’invocazione piuttosto che al ricordo. Anche il termine “azkarah”, usato nel rito pasquale ebraico ossia quello celebrato e rinnovato nel significato e nella sua realtà sacra da Gesù nell’Ultima Cena, significa propriamente “invocare Dio” per sollecitarne il suo ricordo, la sua memoria, dell’uomo, affinché non si dimentichi, qui ed ora ed in ogni tempo, della sua creatura.

Nel Vangelo di Luca, 22,19, le parole di Gesù– «Poi, preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo che è dato per voi: fate questo in memoria di me”» – devono essere comprese, per essere afferrate, nel loro contesto ebraico. Infatti all’orecchio di un ebreo esperto conoscitore del significato dei termini e della liturgia ebraica il vero senso delle parole di Gesù nell’Ultima Cena appare immediatamente evidente. E’ stato, così, ad esempio per Israel Zolli, il rabbino capo della sinagoga romana e grande esegeta nonché studioso di fama internazionale che, a seguito di un percorso di approfondimento esegetico della figura di Gesù iniziato, in un’ottica ebraica, da lungo tempo, si convertì nel 1946 al Cattolicesimo prendendo come nome di battesimo quello di Eugenio in omaggio a Pio XII perché egli era stato testimone diretto di quanto quel pontefice fece per salvare gli ebrei romani durante l’occupazione nazista dell’Urbe. Zolli scrisse anche un’autobiografia, “Prima dell’alba”, per raccontare per quali vie, non esenti da fatti mistici, il Signore lo condusse alla conversione.

«E’ esperienza comune – così, spiegandoci il senso autentico delle attuali parole di consacrazione della Messa cristiana, egli ci racconta della riflessione che, dopo la conversione, gli fu sollecitata dall’assistere al rito eucaristico – :uno sente una data parola tante volte; la incontra nelle sue letture tante volte; non si sofferma, perché la considera chiara, limpida. Un giorno la risente, ne coglie il senso per la “prima” volta. Ecco un esempio vivo: assistetti alla santa Messa in una chiesa di una piccola città in Francia: Saint Laurens sur Sèvre (Vandea). Il celebrante giunse alle parole: “Questo è il mio Corpo il quale è dato per voi: fate questo in memoria di me”. Ma – mi sono detto – “memoria” (o come vogliono dire gli altri: “memoriale”) non si riferisce, di solito, a un morto? E biblioteche intere furono scritte in proposito. Qui basta ricordare che il rito compiuto da Gesù non è una semplice commemorazione, ma un vero sacrificio, sicché la santa Messa è un sacrificio, e si può sacrificare chi è morto? E Gesù glorioso non interviene all’umile mensa dei discepoli e non spezza il pane? E’ un Gesù vivo e risorto. E allora come va la faccenda con quel “in memoria”? Il sostantivo “zekher”, quanto il verbo “zakhor”, significano in ebraico, a rigor di termini: evocazione-invocazione. Si tratta non già di una menzione, d’un ricordo, d’un morto. Prova ne sia quanto segue: salmo 119,55 non si tratta (con “zakharti”): “Io ricordo di notte il Tuo nome, o Signore”, ricordo come di un morto, ma: “Io invoco di notte il Tuo nome”. Quando Giona profeta sente venire meno in sé la vita, non “ricorda” (“zakharti”) il Signore (morto), ma lo “invoca” e, così continua (Gio 2,8): “Ho invocato il Signore, e a te giunse la mia preghiera”. E’ un Dio vivo. Salmo 63,7: l’orante non “ricorda” sul suo giaciglio Iddio, ma lo “invoca”. Geremia 51,50 ai fuggiaschi, ormai in terre lontane, non dice: “ricordate” ma, “invocate il Signore”. Neemia 4,8 non significa: “ricordate”, ma “invocate il Signore Grande e Temibile e combattete per i vostri fratelli, vostri figli …”. In Zaccaria 10,9: “Io li disseminerò fra le genti e nelle lontananze mi invocheranno”, e non semplicemente: “ricorderanno”. Nella diaspora non si “ricorda” il Signore, perché il ricordo stesso diventa “invocazione”. In 1Re 17,18 la vedova di Sarepta si duole col profeta Elia d’essere egli venuto da lei a “ricordare” – ma è un ricordare? – il suo peccato, il suo trascorso lontano. No, a “evocare”, evocazione che diventa così attiva e fattiva da mettere in pericolo imminente la vita del figliolo della donna. Esodo 20,24 contiene la promessa divina: “In ogni luogo in cui Io ti farò invocare (e non: ricordare) il mio nome, verrò da te e ti benedirò”. E’ un “ricordare” il Signore? E’ un atto commemorativo? E’ un atto d’invocazione a cui segue la presenza benedicente, salvifica, del Signore. Come non menzionare il “Signore vieni!” (Marana’tha!) nella vita dei primi cristiani? “Zekher” (“ricordo”) è sinonimo di: Nome di Dio. Invocare il nome significa rendere presente Iddio, Iddio l’Eterno, Iddio che morte non conosce. Si veda Esodo 3,15 (“Dio aggiunse a Mosé: ‘Dirai agli israeliti: Il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione”). Nei Salmi si celebra lo “zekher” di Dio, quanto dire Dio stesso: “Lo zekher, che è di generazione in generazione”. Come lo “zekher” di Dio, così quello di Gesù Cristo, non è “memoria” nel senso comune della parola, non è un “ricordo di quanto fu e non è”, ma invocazione e conseguentemente “zikhru” cioè “immagine-nome”, ossia Cristo, nome di Dio, ossia invocazione e attesa della presenza viva e attiva di Chi fu, è e sarà» (28).

Possiamo aggiungere alla riflessione di Zolli che oltretutto tra “ricordare” ed “invocare” la distanza è più apparente che reale. Infatti, etimologicamente, se “di-menti-care” è l’atto del togliere dalla mente, “ri-cor-dare”, invece, è l’atto del ricondurre all’attenzione del cuore. In latino “cor, cordis” è il cuore mentre il suffisso “ri-re” indica il ritorno, il ricondurre, il riportare. Quindi anche l’invocare. Il ricordarsi di Dio, ovvero l’apertura del cuore a Dio, è anche invocare Dio ed è alla radice stessa della salvezza.

Liturgicamente, nell’epiclesi, nell’invocazione dello Spirito Santo, si ha l’invocazione del Nome di Dio, il Nascosto ed il Rivelato, nell’attualizzazione della Sua Presenza Reale “ri-cor-data” ossia ricondotta, qui ed ora, nel nostro cuore.

NON C’E’ SACERDOZIO SENZA EUCARESTIA

Nel suo scritto “Contra Henricum Regem Angliae”, che era la risposta ad Enrico VIII – il quale, ancora cattolico, prima dello scellerato scisma aveva dato alle stampe un libello contro il monaco tedesco meritandosi dal Papa l’appellativo di “defensor fidei” (29) – Martin Lutero così si esprime: «Avendo trionfato sulla Messa penso che abbiamo trionfato anche sul Papa». Con ciò dimostrando, sebbene con perverse intenzioni, di aver perfettamente capito la stretta connessione esistente tra Sacerdozio ed Eucarestia.

L’Eucarestia è il fondamento stesso del sacerdozio cristiano-apostolico come Sacerdozio di Cristo. Nel momento della celebrazione, mediante il sacerdote che agisce “in Persona Christi”, Cristo è presente nel mezzo dell’assemblea ecclesiale. Il sacerdozio è sacramento perché ha radice eucaristica. Il sacerdozio è dono di Dio e, come tale, indipendente dalla qualità spirituale di colui che è unto sacerdote. Nell’Eucarestia-memoriale vivente, il prete è immagine di Cristo, è un “Alter Christus”, come dice san Giovanni Crisostomo. Cristo è l’Unico Sacerdote in Eterno al modo di Melchisedek ed è in Lui, in Cristo, che il prete compendia la preghiera del popolo e opera il miracolo dell’Eucarestia.

Il cardinale Gerard L. Müller, attuale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, nell’introduzione ad un volume che raccoglie 43 omelie di Papa Benedetto XVI, con prefazione di Papa Francesco,  si è chiesto: «Il Concilio Vaticano II cercò di riaprire una nuova strada verso l’autentica comprensione dell’identità del sacerdozio. Perché mai si giunse allora, all’indomani del Concilio, a una sua crisi d’identità paragonabile storicamente solo con le conseguenze della Riforma protestante del XVI secolo? Penso alla crisi della dottrina del sacerdozio avvenuta durante la Riforma protestante, una crisi a livello dogmatico, con cui il sacerdote è stato ridotto a un mero rappresentante della comunità, mediante una eliminazione della differenza essenziale fra il sacerdozio ordinato e quello comune di tutti i fedeli. E poi alla crisi esistenziale e spirituale, avvenuta nella seconda metà del XX secolo, esplosa cronologicamente dopo il Concilio Vaticano II – ma certo non a causa del Concilio – e delle cui conseguenze noi oggi ancora soffriamo» (30).

Apprendiamo, dall’introduzione di Müller, che è stato proprio Joseph Ratzinger ad evidenziare che senza il fondamento dogmatico del sacerdozio cattolico non può sussistere una vita sacerdotale nella sequela di Cristo, segno di un’esistenza vissuta, con lo Spirito Santo, in letizia e certezza.

Senza la relazione vitale donata nel sacramento dell’Ordine, il celibato sacerdotale diviene il relitto di un passato ostile alla sessualità e viene combattuto come causa della mancanza di sacerdoti. L’incomprensione del fondamento sacerdozio porta alle note critiche per la negazione, in seno alla Chiesa cattolica ed in genere a quelle apostoliche, della possibilità dell’ordinazione delle donne. Dietro queste critiche si scorgono una concezione, proveniente dal mondo protestante, che riduce il sacerdozio ad un mero “ufficio” concepito in termini “funzionali” e “democratici” nonché un radicale disorientamento dell’identità cristiana di fronte a una filosofia che trasferisce all’interno del mondo il senso più profondo e il fine ultimo della storia e di ogni esistenza umana, privandolo così dell’orizzonte trascendente e della prospettiva escatologica. L’assalto di questa “mondanizzazione” ha influito gravemente nella comprensione tradizionale del sacerdozio come affidamento totale a Dio che in Cristo ci ha donato tutto. L’idea di una scelta di vita che, donandosi completamente, si pone nella sequela di Cristo pare essere diventata assurda nel mondo contemporaneo.

«Ma – continua il cardinale Müller – alla radice di questa crisi del sacerdozio, bisogna rilevare anche dei fattori intra-ecclesiali. Come mostra nei suoi primi interventi, Joseph Ratzinger possiede fin dall’inizio una viva sensibilità nel percepire da subito quelle scosse con cui si annunciava il terremoto: e ciò soprattutto nell’apertura, da parte di tanti ambiti cattolici, all’esegesi protestante in voga negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Spesso, da parte cattolica, non ci si è resi conto delle visioni pregiudiziali che soggiacevano all’esegesi scaturita dalla Riforma. E così sulla Chiesa cattolica (e ortodossa) si è abbattuta la furia della critica al sacerdozio ministeriale, nella presunzione che questo non avesse un fondamento biblico. Il sacerdozio sacramentale, tutto riferito al sacrificio eucaristico – così come era stato affermato al Concilio di Trento –, a prima vista non sembrava essere biblicamente fondato, sia dal punto di vista terminologico, sia per quel che riguarda le particolari prerogative del sacerdote rispetto ai laici, specialmente per ciò che attiene al potere di consacrare. La critica radicale al culto – e con essa il superamento, a cui si mirava, di un sacerdozio che limitasse la pretesa funzione di mediazione – sembrò far perdere terreno a una mediazione sacerdotale nella Chiesa. La Riforma attaccò il sacerdozio sacramentale perché, si sosteneva, avrebbe messo in discussione l’unicità del sommo sacerdozio di Cristo (in base alla Lettera agli Ebrei) e avrebbe emarginato il sacerdozio universale di tutti i fedeli (secondo 1 Pt 2, 5). A questa critica si unì infine la moderna idea di autonomia del soggetto, con la prassi individualista che ne deriva, la quale guarda con sospetto a qualunque esercizio dell’autorità. Quale visione teologica ne scaturì? Da un lato si osservava che Gesù, da un punto di vista sociologico-religioso, non era un sacerdote con funzioni cultuali e dunque – per usare una formulazione anacronistica – era un laico. Dall’altro, sulla base del fatto che nel Nuovo Testamento, per i servizi e i ministeri, non viene addotta alcuna terminologia sacrale bensì denominazioni ritenute profane, sembrò che si potesse considerare dimostrata come inadeguata la trasformazione – nella Chiesa delle origini, a partire dal III secolo – di coloro che svolgevano mere “funzioni” all’interno della comunità, in detentori impropri di un nuovo sacerdozio cultuale».

Qui, in questo passaggio, il cardinale Müller tocca un punto fondamentale: l’incomprensione intervenuta per influsso protestante nella Chiesa cattolica del fondamento “melchisekdiano” del Sacerdozio di Gesù Cristo, come, tra le altre fonti, proprio la Lettera agli Ebrei sottolinea. Gesù Cristo è “Sacerdote in Eterno al modo di Melchisedek”, ossia il depositario post-diluviano, probabilmente cananeo, della Rivelazione. Melchisedek è definito in Genesi 14, 18-20 “Sacerdote dell’Altissimo e Re di Salem” ossia della “Pace” nel senso trascendente e metafisico del termine, la “Pace” che Cristo ci dona e che il mondo non può dare (Gv. 14, 27). Melchisedek, che per i Padri è figura tipologica del Cristo Venturo, uscendo incontro ad Abramo, gli offre, secondo la narrazione biblica, i segni eucaristici del pane e del vino quale pegno di Alleanza e di Pace.

Il cardinal Müller, così continuando nella sua “Introduzione”, spiega, pur senza riferirsi direttamente alla figura di Melchisedek, come l’attuale Papa emerito abbia ricostruito, sotto il profilo teologico e storico, contro l’esegesi protestante, la verità biblica del fondamento del Sacerdozio Universale di Cristo: «Joseph Ratzinger sottopone, a sua volta, a un puntuale esame critico, la critica storica improntata alla teologia protestante e lo fa distinguendo i pregiudizi filosofici e teologici dall’uso del metodo storico. In tal modo, egli riesce a mostrare che con le acquisizioni della moderna esegesi biblica e una precisa analisi dello sviluppo storico-dogmatico si può giungere in modo assai fondato alle affermazioni dogmatiche prodotte soprattutto nei Concili di Firenze, di Trento e del Vaticano II. Ciò che Gesù significa per il rapporto di tutti gli uomini e dell’intera creazione con Dio – dunque il riconoscimento di Cristo come Redentore e universale Mediatore di salvezza, sviluppato nella Lettera agli Ebrei per mezzo della categoria di “Sommo Sacerdote” (Archiereus) – non è mai dipeso, come condizione, dalla sua appartenenza al sacerdozio levitico. Il fondamento dell’essere e della missione di Gesù risiede piuttosto nella sua provenienza dal Padre, da quella casa e da quel tempio in cui egli dimora e deve stare (cfr. Lc 2, 49). È la divinità del Verbo che fa di Gesù, nella natura umana che egli ha assunto, l’unico e vero Maestro, Pastore, Sacerdote, Mediatore e Redentore. Egli rende partecipi di questa sua consacrazione e missione mediante la chiamata dei Dodici. Da essi sorge la cerchia degli apostoli che fondano la missione della Chiesa nella storia come dimensione essenziale alla natura ecclesiale. Essi trasmettono il loro potere ai capi e pastori della Chiesa universale e particolare, i quali operano a livello locale e sovra-locale».

LA “RISPOSTA CATTOLICA”

Nella questione della giustificazione, Lutero nega ogni dignità all’uomo rendendolo un passivo oggetto indifferente alla trasformazione interiore operata dalla Grazia. Da qui la negazione di ogni valore alle opere. Il “De servo arbitrio” fa dell’uomo un essere determinato al e dal peccato (la radice del “determinismo scientista” va rintracciata in questo determinismo teologico), incapace di evitarlo, e rende la Grazia un decreto esteriore che copre, ma non cancella, il peccato “ontologico”, ossia intrinseco, all’uomo, all’essere stesso dell’uomo. Gli esegeti filo-luterani non si accorgono che, qui, non c’è da parte di Lutero la rivendicazione, sull’onda della grande Tradizione della Chiesa apostolica, del primato di Dio, del primato della Grazia, che chiama l’uomo al Suo Amore. No! Qui, se si legge bene, Lutero ribadisce la sua convinzione, delle cui radici gnostiche abbiamo più volte detto, per la quale l’uomo, quale “ente”, quindi quale “contrarietà a Dio”, sarebbe solo cloaca di impurità come tutto ciò che è materia, come tutto ciò che esistendo si oppone frontalmente al Dio esclusivamente apofatico della mistica neoplatonica e neo-ermetica cui egli ha attinto. Lutero stravolge non solo Agostino ma anche Paolo dato che ha preteso di fondare la negazione delle opere sugli insegnamenti dell’apostolo laddove, nella Lettera ai Romani, quest’ultimo sviluppa la sua critica alle “opere”. Ma per Paolo si trattava delle “opere della Legge”, ossia delle prescrizioni morali e rituali mosaiche, impossibili ad adempiersi senza la Grazia di Cristo, non certo delle opere di carità segno esteriore proprio di quella Grazia santificante, quindi trasformante in interiore homine, che invece Lutero disconosce completamente.

E che Lutero non abbia assolutamente compreso Paolo, nel solco dell’apostolicità che conferisce l’esatto senso e significato di quel che l’apostolo ha inteso dire nei suoi scritti, è dimostrato proprio dall’abbaglio da lui preso circa il passo paolino che fu alla base di quella che, secondo il suo racconto, egli afferma essere stata la sua improvvisa “illuminazione” in ordine alla giustificazione. Quel passo è 1,17 della Lettera ai Romani: «Il giusto vivrà mediante la fede». Perché preso a sé, al di fuori del suo contesto e approcciato in modo individualistico ossia per assecondare i proprio personali bisogni esistenziali, psicologici o esegetici, come ha appunto fatto Lutero, a quel passo si potrebbe anche far dire quel che la dottrina luterana della giustificazione pretende che esso dica. Invece esso, preso nel suo contesto e nel solco della Tradizione apostolica, quel passo dice il contrario di quanto ha creduto Lutero di trarvi. Proprio poche righe più sotto – 1, 19-20 – Paolo afferma « … ciò che di Dio si può conoscere è … manifestato. Dio stesso lo ha … manifestato. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità». Dunque per l’apostolo le opere non sono negative ma sono il segno dell’amore creativo di Dio, della Sua Presenza non solo nascosta ma rivelata, e quando egli parla, sempre nella stessa Lettera, dell’inutilità delle opere non si riferisce certo né alla creazione, buona, di Dio né alle opere di carità dell’uomo giustificato, segno esteriore della trasformazione per Grazia del cuore umano che è redento, santificato, e non lasciato nel peccato, ma allo sterile ritualismo ebraico, alle opere della Legge. Ed anche qui, a proposito della Legge, Paolo, nonostante il suo linguaggio apparentemente dialettico, non ha mai inteso opporre la stessa alla Grazia o alla fede, come ha pensato Lutero. Infatti, Paolo ben conosceva che Cristo non è venuto ad abolire la Legge ma per darle compimento, perché della Legge non cadrà neppure uno iota fino a che tutto non sarà compiuto (Mt. 5, 17-18; Lc. 16,17). Ma, ecco la novità cristiana, la Legge non può essere adempiuta dall’uomo senza la Grazia di Dio che solo Gesù Cristo, Dio Incarnato, dona. Questo perché il cuore della Legge non erano i ritualismi farisaici di purità – le tradizioni umane alle quali si riferisce Cristo accusando i farisei di averle poste al di sopra della Legge stessa – ma l’Amore di Dio e del prossimo, i due comandamenti dai quali dipendono tutta la Legge e i Profeti (Mt. 22, 34-40; Mc. 12, 28-34; Lc. 10, 25-28). Ora, per adempiere questi due comandamenti le sole forze umane non sono sufficienti ma è necessario che Dio, con la sua grazia, ossia gratuitamente, muova il cuore dell’uomo, se è cuore aperto o almeno disponibile, trasformandolo intimamente, come la grande storia cristiana della santità sta lì a dimostrare con il segno esteriore, di tale trasformazione, ossia le opere di misericordia spirituale e corporale, ovvero la Carità. Esattamente quel segno che, negando valore alle opere e affermando una concezione estrinsecistica, “giuridica”, della grazia, derivante dalla fede, Lutero disconosce sostanzialmente disconoscendo ogni effetto alla grazia fino a renderla inoperante, fredda, morta, nulla.

Joseph Ratzinger è un ammiratore degli studi di Theobald Beer e non ha esitato a convenire, con lui, sul fatto che «Lutero, prima che un eretico, deve essere giudicato come gnostico». Forse anche per questo, ancora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, nel 1998 fu autore della “Risposta della Chiesa Cattolica” alla “Dichiarazione congiunta tra la Chiesa e la Federazione Luterana Mondiale circa la dottrina della giustificazione” (“Gemeinsame Erklärung”). Era accaduto che in quello stesso anno il Pontificio Consiglio per la promozione dell’Unità dei Cristiani, nella persona del suo presidente il cardinale Cassidy, aveva siglato la citata Dichiarazione congiunta sulla giustificazione senza avvedersi del totale cedimento cattolico alle tesi luterane contenuto in quel documento. Sicché l’ottimo Ratzinger fu costretto ad intervenire chiedendo allo stesso Cassidy una sorta di “ritrattazione”. Infatti in calce al testo della “Risposta” è affermato che essa è stata elaborata di comune intesa fra la Congregazione per la Dottrina della Fede ed il Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, e viene firmata dal Presidente del medesimo Pontificio Consiglio, direttamente responsabile per il dialogo ecumenico (31).

La “Risposta”, pur ammettendo che tra la dottrina cattolica e quella luterana sulla giustificazione ci sono punti di convergenza, ribadisce che tuttavia che non è possibile ancora parlare di un consenso tale che elimini ogni differenza fra i cattolici e i luterani in argomento. Segue, nella “Risposta”, un elenco di punti, citati secondo un ordine di importanza, che impediscono una intesa in tutte le verità fondamentali. Il primo punto insormontabile, che viene ricordato, è quello per il quale secondo la Dottrina della Chiesa cattolica nel battesimo viene tolto tutto ciò che è veramente peccato, e perciò Dio non odia niente in quelli che sono nati di nuovo. Sicché la “concupiscenza” che rimane nel battezzato non è propriamente peccato. Perciò per i cattolici la formula usata nella “Dichiarazione”, dal tipico sapore luterano, ossia “opposizione a Dio” (Gottwidrigkeit), non è accettabile perché incompatibile con la rinnovazione e la santificazione dell’uomo interiore di cui parla il Concilio di Trento. Nelle formule usate dalla “Dichiarazione”, stando alla “Risposta cattolica”, la trasformazione interiore dell’uomo non appare con chiarezza. In sostanza nella “Dichiarazione” si forzano gli argomenti per arrivare ad affermare che la dottrina luterana sul “simul iustus et peccator” non sarebbe toccata dagli anatemi dei decreti tridentini sul peccato originale e la giustificazione. Per la Chiesa cattolica, fin dai tempi dei Padri, seguendo la Scrittura, la giustificazione è organicamente inserita nel criterio fondamentale della “regula fidei”, cioè la confessione del Dio uno e trino, cristologicamente centrata e radicata nella Chiesa viva e nella sua vita sacramentale. Non può, dunque, ammettersi giustificazione senza la mediazione sacramentale della Chiesa, come invece sosteneva Lutero.

Nella stessa “Risposta cattolica” viene, poi, messo in evidenza il punto forse più delicato che troppo spesso sfugge ai disattenti. L’amico carissimo e noto storico Franco Cardini, domenica 23 ottobre 2016, ha pubblicato sul suo blog personale un intervento dedicandolo «al sacerdote che mi ha impartito il sacramento della confessione stamattina alle 9 nella splendida basilica parmense della Madonna della Steccata, dove la duchessa Maria Luisa Bonaparte-Asburgo ha voluto ricordare il conte di Neipperg con un bel cenotafio neoclassico e dove ha la sua sede l’Ordine Apostolico Costantiniano; e lo ringrazio per avermi ricordato la frase di Lutero, che qui sotto traduco liberamente». La frase di Lutero chiamata in causa dal confessore è la seguente: «La salvezza di ciascuno di noi dipende più dalla Grazia divina che non dal nostro merito e dalla nostra conquista». Orbene, sembra proprio che il confessore, maggiormente disattento perché da sacerdote certe cose dovrebbe conoscerle, ed il confessato, che in quanto cristiano discente non ha colpe di un insegnamento errato impartitogli, non si siano affatto resi conto del reale significato della frase luterana. Alla luce di quanto siamo andati dicendo circa le fonti spurie da lui utilizzate, possiamo ben dire che in essa Lutero, sotto apparenti spoglie ortodosse, nega in realtà l’opera trasfigurante della Grazia di Dio. Perché quella frase deve essere letta nel contesto della teologia luterana per la quale la Grazia non trasforma il cuore dell’uomo ma si limita soltanto a “coprire” il peccato, che resta del tutto in quanto è l’uomo stesso ad essere ontologicamente “peccato”. Sicché le opere esteriori, ad iniziare da quelle di carità, lungi dall’essere segno di santità altro non sarebbero che orgoglio e vanità, ossia peccato. Stando a questa convinzione di Lutero ogni volta che madre Teresa di Calcutta si è amorevolmente chinata su un derelitto, spinta dall’Amore di Cristo, ella ha peccato per soddisfare il suo orgoglio e la sua vanità. Lutero arriva ad affermare queste cose perché, come si è detto, egli ha una visione del tutto negativa dell’essere. Ciò che esiste è l’opposto di Dio e pertanto non sarebbe possibile affermare alcuna bontà ontologica del e nel mondo. Tantomeno nell’uomo.

Ora, provvidenzialmente, a conforto dell’amico Franco Cardini e del suo disattento confessore, la “Risposta cattolica” alla “Dichiarazione congiunta” del 1998 è tornata a puntualizzare quanto, appunto, rischia di sfuggire ai disattenti. Nel punto 3, essa afferma: «Come si afferma al n. 17 della Dichiarazione Congiunta, luterani e cattolici condividono la comune convinzione che la vita nuova viene dalla misericordia divina e non da un merito nostro. Occorre però ricordare, come si dice in 2 Cor. 5,17, che questa misericordia divina opera una nuova creazione e rende quindi l’uomo capace di rispondere al dono di Dio, di co-operare con la grazia. A questo riguardo la Chiesa cattolica prende atto con soddisfazione che il n. 21, in conformità con il can. 4 del Decreto sulla Giustificazione del Concilio di Trento (DS 1554) afferma che l’uomo può rifiutare la grazia; ma si dovrebbe anche affermare che a questa libertà di rifiutare corrisponde anche una nuova capacità di aderire alla volontà divina, capacità giustamente chiamata “cooperatio”. Questa nuova capacità, data nella nuova creazione, non permette l’uso dell’espressione “mere passive” (n. 21). D’altra parte che questa capacità abbia carattere di dono, lo esprime bene il cap. 5 (DS 1525) del Decreto tridentino quando dice: “ita ut tangente Deo cor hominis per Spiritus Sancti illuminationem, neque homo ipse nihil omnino agat, inspirationem illam recipiens, quippe qui illam et abicere potest, neque tamen sine gratia Dei movere se ad iustitiam coram illo libera sua voluntate possit”. In realtà anche da parte luterana al n. 21 si afferma una piena partecipazione personale nella fede (“sein volles personales Beteiligtsein im Glauben”). Sarebbe necessario però un chiarimento sulla compatibilità di questa partecipazione con l’accoglienza della giustificazione “mere passive”, allo scopo di determinare con più precisione il grado di coincidenza con la dottrina cattolica. Quanto poi alla frase finale del n. 24: “Gottes Gnadengabe in der Rechtfertigung unabhängig bleibt von menschlicher Mitwirkung”, essa deve essere intesa nel senso che i doni di grazia di Dio non dipendono dalle opere dell’uomo, ma non nel senso che la giustificazione possa accadere senza la cooperazione umana. (…). La Chiesa cattolica sostiene anche che le buone opere del giustificato sono sempre frutto della grazia. Ma allo stesso tempo, e senza nulla togliere alla totale iniziativa divina, esse sono frutto dell’uomo giustificato e trasformato interiormente. Perciò si può dire che la vita eterna è, allo stesso tempo, sia grazia che ricompensa data da Dio per le buone opere e i meriti. Questa dottrina è conseguenza della trasformazione interiore dell’uomo di cui si è parlato nel n. 1 di questa “Nota”. Questi chiarimenti aiutano alla giusta comprensione, dal punto di vista cattolico, del paragrafo 4.7 (nn. 37-39) sulle opere buone del giustificato».

Ecco perché, continua la “Risposta Cattolica”, secondo il Concilio di Trento, mediante il sacramento della penitenza il peccatore può essere nuovamente giustificato (rursus iustificari) e può  recuperare la giustizia perduta. Le verità fondamentali della salvezza donata da Cristo nell’accoglimento della fede, del primato della grazia su ogni iniziativa umana, del dono dello Spirito Santo che ci rende capaci di vivere conformemente alla nostra condizione di figli di Dio – viene affermato in sostanza nella “Risposta cattolica” – non possono essere interpretate come se sussistesse una opposizione tra la Somma Bontà di Dio e la, riflessa, bontà ontologica della sua creazione e, quindi, anche della natura umana. La quale è stata, come afferma il Tridentino, soltanto “ferita”, non “corrotta”, dal peccato e, per questo, assolutamente redimibile, per i meriti del Sacrificio di Gesù Cristo sulla Croce che si rinnova sacramentalmente in ogni eucarestia, e non predestinata arbitrariamente alla dannazione come se il suo stesso essere, esistere, fosse il male, l’anti-Dio.

«Queste osservazioni – viene ricordato in conclusione nella “Risposta Cattolica” – intendono precisare l’insegnamento della Chiesa cattolica riguardo a quei punti sui quali non si è giunti a un accordo totale e completare alcuni dei paragrafi che espongono la dottrina cattolica, per meglio mettere in luce la misura del consenso a cui si è arrivati. L’alto livello d’accordo raggiunto non permette ancora di affermare che tutte le differenze che separano i cattolici e i luterani, nella dottrina circa la giustificazione, sono semplici questioni di accentuazione o di linguaggio. Alcune toccano aspetti di contenuto e quindi non sono tutte reciprocamente compatibili, come invece si afferma al n. 40 (della “Dichiarazione congiunta”). Se è vero inoltre che in quelle verità sulle quali un consenso è stato raggiunto, le condanne del Concilio di Trento non si applicano più, tuttavia le divergenze che riguardano altri punti devono invece essere superate prima di poter affermare, come si dice genericamente al n. 41 (della “Dichiarazione congiunta”), che tali punti non ricadono più sotto le condanne del Concilio di Trento. Ciò vale in primo luogo per la dottrina sul “simul iustus et peccator” (cfr n. 1, supra)».

La “Risposta”, poi, ribadisce il carattere non ecclesiale delle comunità protestanti, per mancanza di continuità apostolica, laddove viene ricordato che: «Occorre infine rilevare il carattere diverso, dal punto di vista della rappresentatività, dei due firmatari, che hanno siglato questa Dichiarazione Congiunta. La Chiesa cattolica riconosce il grande sforzo fatto dalla Federazione Luterana Mondiale, di arrivare tramite la consultazione dei Sinodi al “magnus consensus”, per dare un vero valore ecclesiale alla sua firma; rimane però la questione dell’autorità reale di un tale consenso sinodale, oggi e anche domani, nella vita e nella dottrina della comunità luterana».

La “Risposta della Chiesa Cattolica” alla “Dichiarazione congiunta cattolico-luterana sulla giustificazione”, al di là del linguaggio molto teologico che in prima battuta potrebbe scoraggiare il semplice fedele, tocca in realtà questioni vive e vitali nella relazione tra l’uomo e Dio, il Vivente. Si tratta del mistero stesso della Grazia connessa al mistero dell’Incarnazione e, quindi, alla Divino-Umanità corporea di Cristo, base della corporeità e sacramentalità della stessa Chiesa apostolica.

Joseph Ratzinger ebbe modo di spiegarlo, al di fuori del contesto ufficiale della “Risposta cattolica”, in una intervista rilasciata ad una rivista cattolica (32). Ratzinger, in questa intervista, insiste molto sul fatto che la tendenza a perdere di vista il mistero della grazia deve inquadrarsi in una deriva deista che porta a disincarnare la fede. Mentre, al contrario, Dio, facendosi uomo, entrando nella carne, unendosi alla carne, opera nel mondo per trasformarlo.

«Non si tratta – annota Ratzinger in merito al problema delle antiche formulazioni teologiche sulle quali si venne nel XVI secolo alla rottura – delle formule prese in se stesse, ma considerate nel loro contesto, come nel caso di quella “simul iustus et peccator”. Per Lutero, perseguitato dal timore della condanna eterna, era importante sapere che, anche se era un peccatore, era tuttavia amato da Dio e giustificato. Per lui c’è questa contemporaneità: di essere vero peccatore e di essere totalmente giustificato. È una espressione della sua esperienza personale, che poi è stata approfondita anche con riflessioni teologiche. Mentre per la Chiesa cattolica è importante sottolineare che non c’è un dualismo. Se uno non è giusto non è neanche giustificato. La giustificazione, cioè la grazia che ci viene data nel sacramento, rende il peccatore nuova creatura, come dice san Paolo. Ma rimane, come afferma il Concilio di Trento, la concupiscenza, cioè una tendenza al peccato, uno stimolo che porta al peccato, ma che, come tale, non è peccato. Queste sono controversie classiche. Il problema diventa più reale se prendiamo in considerazione la presenza della Chiesa nel processo della giustificazione, la necessità del sacramento della penitenza. Qui si rivelano le vere divergenze. (Nella formula “simul iustus et peccator” è affermato che la grazia non opera un cambiamento reale, rimane una mera copertura del peccato dell’uomo)… In questo senso è (invece) importante notare che Dio agisce realmente nell’uomo. Lo trasforma, crea qualcosa di nuovo nell’uomo, non dà soltanto un giudizio quasi giuridico, esterno all’uomo. Ciò ha una portata molto più generale. C’è una trasformazione del cosmo e del mondo. Penso ad esempio all’Eucarestia. Noi cattolici diciamo che c’è una transustanziazione, che la materia diventa Cristo. Lutero parla invece di coesistenza: la materia rimane tale e coesiste con Cristo. Noi cattolici crediamo che la grazia è una vera trasformazione dell’uomo e una trasformazione iniziale del mondo e non è … soltanto una copertura aggiunta che non entra realmente nel vivo della realtà umana. (Già il poeta francese Charles Péguy circa un secolo fa coglieva la radice della scristianizzazione nel fatto di non riconoscere l’operazione della grazia) … È (dunque) importante questa operazione della grazia. Noi siamo tutti contagiati un po’ dal deismo. Dio rimane un po’ fuori. Mentre la fede cattolica – questa grande fiducia, questa grande gioia che Dio, facendosi uomo, entrando nella carne, unendosi alla carne, continua a operare nel mondo trasformandolo – ha la potenza, la volontà, la radicalità dell’amore, per entrare nel nostro essere e trasformarlo. (…). Chi si oppone alla dottrina esposta a Trento si oppone alla dottrina, alla fede, della Chiesa».

A margine ed in calce alla lezione di fede dell’attuale Papa emerito, circa i problemi ancora insoluti nei rapporti tra cattolici e protestanti, in particolare con riferimento alla dottrina della giustificazione, è bene qui – per via dell’importanza pratica che la questione ha nell’ambito culturale cattolico oggi – ribadire, pur avendo ad esse già fatto cenno, a quali conseguenze porta la disattenzione sui problemi teologici sollevati da Lutero secoli fa.

La negazione luterana della bontà delle opere, infatti, ha indotto una vasta, recente, letteratura storica e filosofico-politica – che ha nel catto-conservatrice di Michael Novak un esponente di primo piano – ad una critica alla tesi di Max Weber per la quale il protestantesimo avrebbe dato una forte spinta al nascente capitalismo liberista. Si è detto che non Lutero, proprio perché egli svaluta le opere umane, ma l’ottimismo cattolico, che invece apprezza le opere, sarebbe alla radice dell’antropologia necessaria all’affermazione dello spirito imprenditoriale del moderno capitalismo. Ma gli esponenti di tali tesi anti-weberiane fanno lo stesso errore di Lutero. Anch’essi, infatti, dimenticano che le opere frutto della Grazia sono le opere della carità e non certo gli “affari”, non certo la produzione e lo scambio o il mercato. Anche ad un imprenditore è, senza dubbio, possibile, per Grazia, fare della sua attività una continua occasione di carità spirituale e sociale (e benché raramente sono annoverati imprenditori di questo genere) ma non per questo è possibile individuare nell’apprezzamento cattolico delle opere – ribadiamo “opere” come segno esteriore della trasformazione del cuore risanato dalla Grazia salvifica di Cristo, e dunque opere di carità – la radice teologica e antropologica di un sistema economico di produzione e scambio il cui vero volto, invece, sta nel primato della concorrenza ossia della sopraffazione legale del prossimo nella spietata, darwiniana, lotta per la sopravvivenza (perché, a dispetto del romanticismo di tanti cattolici liberisti o ordoliberisti, la realtà storica e quotidiana del libero mercato è, purtroppo, esattamente questa).

La tesi antiweberiana di cui sopra, inoltre, cozza, laddove si faccia un anche sommario approfondimento, con quella che è stata la storia dello sviluppo dell’economia capitalistica moderna. Quest’ultima, infatti, ha assunto caratteri predatori, cinici, antisociali, individualistici, proprio nei Paesi protestanti nei quali ha potuto affermarsi liberamente ovvero senza scontrarsi con ostacoli etici extraeconomici. Mentre ha potuto penetrare anche nei Paesi di tradizione cattolica solo con più difficoltà e solo patteggiando con i vincoli morali e sociali imposti dalla pressione religiosa del Cattolicesimo e dall’Autorità politica. Con il risultato, in quest’ultimo caso, che capitalismo e mercato, onde accreditarsi, hanno finito, volontariamente o spesso obtorto collo, per presentarsi con un volto “sociale”, “comunitario”, all’interno di uno spazio regolato ed anche spesso diretto dall’Autorità politica.

L’errore della tesi del Novak e degli altri contestatori di Weber sta nel dimenticare che Lutero, con la sua teologia, ha favorito l’individualismo sul quale l’Occidente, separandosi dalla Cristianità, si è auto-costruito nella sua potenza capitalista: il libero esame porta al libero mercato. Qui Weber, dunque, non aveva tutti i torti quando ha individuato nell’ascetismo professionale di Calvino il fattore che, se non ha proprio determinato l’affermarsi dell’economia capitalista, certo lo ha reso più facile.

Weber tuttavia, come abbiamo già evidenziato, non spiega adeguatamente lo stretto legame tra l’ascetismo professionale di Calvino e l’idea luterana di un “dio” irascibile, senza misericordia, che salva arbitrariamente ed indipendentemente dalle opere, ossia dal segno esteriore della trasformazione del cuore nell’Amore negata appunto da Lutero. Il “dio” di Lutero può salvare il peggiore dei criminali senza che questi mostri alcun pentimento e, paradossalmente, dannare Francesco d’Assisi, perché le opere sarebbero soltanto il frutto dell’orgoglio e della vanità umana (ecco ancora la svalutazione gnostica della carne). L’uomo luterano viene così gettato nella più totale e buia disperazione – la stessa con la quale conviveva Lutero preda delle sue ossessioni – perché egli è sempre nel dubbio circa la propria salvezza. Qualunque cosa egli faccia è inutile, tanto che sia il soccorrere i poveri che il privarli di amore. Lutero aveva lasciato i suoi seguaci senza alcuna autentica risposta circa la strada della salvezza prospettando loro esclusivamente un orizzonte di ansiosa disperazione.

Ma come la rivalutazione sconsacrante del mondo finì per imporsi quale contraccolpo/rovesciamento del radicale apofatismo, affermatosi con la spuria spiritualità dalla quale prendeva le mosse anche la teologia luterana, così anche Calvino pervenne, per contraccolpo/rovesciamento della negazione luterana delle opere, all’idea dell’attività imprenditoriale nell’austerità “metodica”, quindi del successo economico, quale segno della predestinazione. Offrendo, per tale via altrettanto errata, una risposta al dramma che Lutero aveva inaugurato circa il problema della salvezza. Quella di Calvino era una risposta altrettanto errata perché inventando una sorta di ascetismo intra-mondano rinchiudeva ogni possibilità di salvezza dell’uomo esclusivamente nel lavoro, nell’accumulare ricchezza per essere sicuri della propria predestinazione, e quindi in un orizzonte esclusivamente immanente che recide ogni legame sacramentale e spirituale tra Trascendenza e l’operare umano nel mondo, negando, ad esempio, la carità che, in detta prospettiva, non può che apparire come “dissipazione” contraria al lavoro accumulatore di beni e segno della predestinazione. Questo spiega perché nei Paesi protestanti furono accesamente combattute le antiche istituzioni dedite alla carità e fu imposta una dura morale di rigorismo socio-affaristico. Il cosiddetto “biblismo sociale” che è alla base della mentalità anglo-olandese-americana.

Luigi Copertino

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 NOTE

26) Lungi dall’essere la rielaborazione cristiana di miti pagani, che pertanto troverebbero continuazione sotto riverniciatura cristiana, come sostiene tutta una diffusa pubblicistica che va dal testo del nazista Otto Rahn “Crociata contro il Graal” all’opera di Evola “Il mistero del Graal e la tradizione ghibellina dell’impero” fino alla paccottiglia teosofica ed a quella new age attuale, il ciclo letterario graalico è autenticamente e profondamente cristiano, come ha dimostrato Michel Roquebert in “I catari e il Graal – il mistero di una grande leggenda e l’eresia albigese”, San Paolo, Torino, 2007. Nella prefazione del testo è sinteticamente spiegata la tesi proposta: «Nel 1182 o 1183, Chrétien de Troyes scrive “Perceval il gallese o il racconto del Graal” (…). L’opera interpella il suo tempo: dalla fine del 1100 fino al 1210 circa, appare una prima ondata di “Continuazioni” e di sviluppi: il “Giuseppe o la storia del Graal” e il “Merlino” in versi di Robert de Boron, seguiti … da un nuovo “Perceval”, dall’anonimo “Perlesvaus” e dal “Parzival” di Wolfram von Eschenbach. Dopo il 1215, una seconda ondata offre altre due “Continuazioni” e l’immenso corpus del “Lancilotto-Graal” che, sul piano del contenuto spirituale, culmina intorno al 1225 con “La ricerca del Santo Graal”. E’ opinione comune che lo sviluppo interno di tutto il ciclo abbia rappresentato una cristianizzazione del primitivo romanzo cavalleresco e che, assegnando alla cavalleria una missione sacra – quella di difendere la cristianità contro i suoi “nemici” –, esso rispecchi lo spirito delle crociate in Terrasanta. Dobbiamo tuttavia osservare che la “cristianizzazione” del ciclo del Graal non è affatto una semplice colorazione religiosa applicata ai racconti di avventura, ma lo sviluppo di una soteriologia cristologica indissolubilmente legata alla Passione redentrice e all’eucarestia: l’avventura diventa la ricerca della grazia e il “romanzo di apprendistato”, come era il primo “Parsifal”, sfocia, al termine del ciclo, in una vera e propria imitazione di Gesù Cristo; tutto il ciclo inoltre è rigorosamente in sincronia con la preparazione e lo svolgimento della crociata contro gli albigesi … per sradicare … l’eresia catara; infine, le due fasi di sviluppo letterario si articolano attorno alla proclamazione del dogma della transustanziazione a opera del concilio Laterano del 1215 e alla condanna delle dottrine dello storicismo di Gioacchino da Fiore e del dualismo cataro (…). (…) poiché una comune aura di “purezza” emana sia dalla religione catara sia dalla ricerca del Graal, a volte ci si è lasciati andare a frettolose mescolanze tra le vie di salvezza proposte dall’una e dall’altra. Mettere a confronto le due soteriologie significa evitare di estrapolare, e di far dire all’una o all’altra più di quanto esse realmente dicono secondo i testi che ce le hanno trasmesse». Sulla stessa scia della radice mistica cristiana, e non pagana o esoterica, del ciclo letterario del Graal si può far riferimento anche alle tesi dello studioso cattolico Charbonneau-Lassay sul rapporto tra il Graal, Coppa Sacrificale contenente la Bevanda d’Immortalità (per Sant’Ignazio d’Antiochia, l’Eucarestia è il “farmaco dell’immortalità”), quindi prefigurazione eucaristica, ed il Sacro Cuore di Gesù. Di Charbonneau-Lassay si può utilmente leggere “Il Santo Graal”, Il Cerchio, Rimini, 1995.

27) Cfr. Vladimir Zelinskij “L’Eucarestia nella prospettiva ortodossa”.

28) Cfr. Eugenio Zolli “Prima dell’alba – autobiografia autorizzata”, San Paolo, Torino, 2004, pp. 260-262.

29) Enrico VIII, al momento del suo scritto anti-luterano, era ancora in buoni rapporti con Carlo V, l’imperatore, avendone sposato la zia Caterina d’Aragona, la prima delle sue sei mogli, regina amatissima dal popolo, per le sue opere di carità verso i poveri (un vero e proprio programma ante litteram di assistenza sociale) ed ammiratissima dagli intellettuali, ad iniziare da William Shakespeare, verso i quali aveva molte mecenatiche attenzioni, in particolare stimava Erasmo da Rotterdam e Tommaso Moro. Enrico VIII, quando comprese che l’alleanza e la parentela con Carlo V lo ponevano in secondo piano sullo scenario europeo, nell’intento di fare della secondaria Inghilterra del tempo una potenza navale ruppe, con la scusa del mancato erede maschio, con l’Impero, divorziando da Caterina e scatenando, di fronte alle resistenze del Papa alla richiesta di annullamento delle nozze (il Papa doveva pur tener conto che si trattava della sorte della zia dell’Imperatore e non poteva concedere tale annullamento), scatenò, anche sollecitata dalla potente famiglia della sua amante Anna Bolena, lo scisma proclamandosi Capo della Chiesa nazionale d’Inghilterra separandola da Roma, con successive conseguenze anche sul piano della dottrina della fede che inizialmente aveva invece conservato, a parte il negato Primato del Papa, un carattere ancora cattolico).

30) Cfr. Gerard L. Müller “Introduzione” a “Insegnare e imparare l’amore di Dio”, Cantagalli, Siena, 2016. Nel testo i brani citati sono tratti da questa “Introduzione”.

31) I testi sia della “Dichiarazione congiunta” sia della “Risposta della Chiesa Cattolica” sono facilmente reperibili sul web.

32) Cfr. “Il mistero e l’operazione della grazia”, intervista di Gianni Cardinale con il cardinale Joseph Ratzinger, in 30giorni nella Chiesa e nel mondo, 1998.