IL DIO NASCOSTO E RIVELATO quinta parte – Luigi Copertino

IL DIO NASCOSTO E RIVELATO

 SULL’IMPOSSIBILE “CANONIZZAZIONE” DI MARTIN LUTERO

RAGIONI STORICHE, SPIRITUALI E TEOLOGICHE

 QUINTA PARTE

 

IL SOGGETTIVISMO DA LUTERO AD EVOLA

Nella questione della giustificazione, Lutero nega ogni dignità all’uomo rendendolo un passivo oggetto indifferente alla trasformazione interiore operata dalla Grazia. Da qui la negazione di ogni valore alle opere, alle opere di Carità.

Abbiamo già detto che dalla rottura dell’analogia deriva a Lutero anche il soggettivismo teologico, radice di quello politico, sociale ed economico sviluppato dalla modernità. Lutero, mentre studiava un passo della Scrittura, ebbe, a suo dire, l’improvvisa “illuminazione”, immediata e diretta – ossia di carattere psicologico e soggettivo –, di essere stato salvato nonostante la corruzione irrimediabile della propria natura umana segnata indelebilmente dal peccato. Questo radicale soggettivismo dell’esperienza religiosa fa di essa un’esperienza del tutto incomunicabile.

Infatti, la fede in Lutero è un’esperienza solitaria dell’io nel suo rapportarsi all’oggetto di tale fede. Lutero insiste molto sulla fede come fiducia in Dio, in un modo apparentemente ortodosso. In realtà la sua idea della “fede fiduciale” è un assoluto fideismo radicalmente autocentrico tale da intendere che, in fondo, è il fedele, l’io, a crearsi il suo “Dio”. Quando nel suo “Grande Catechismo” Lutero afferma che la coscienza adora Dio solo se sostenuta da “fede retta”, mentre laddove essa non è sostenuta da una “fede retta” l’io adora non la divinità ma l’“idolo”, dietro l’apparenza cattolica di una tale affermazione si cela, a ben vedere, l’idea che sia la coscienza, l’io, ad elaborarsi il suo “Dio” piuttosto che ad aderire ad una Rivelazione. Questo perché Lutero, dal momento che nega la Chiesa come luogo di veicolazione della Rivelazione, e della sua corretta esegesi, non può che rimettere alla coscienza individuale la decisione ultima su Dio, che in tal modo tende a diventare un oggetto di intelletto più che l’Essere creatore da adorare ed amare, una proiezione dello spirito umano come più tardi affermerà il – guarda caso – protestante, Feuerbach. Come detto, non vi è, per Lutero o se si vuole per le conseguenze (in questo senso, l’idealismo senza Lutero non sarebbe stato possibile) che derivano dalla sua teologia, vera oggettività di Dio al di fuori di ciò che il soggetto sente e crede come vero.

Ancora l’Ebeling, da onesto teologo protestante, lo evidenzia quando segnala un testo luterano nel quale è spiegato che Dio sussiste solo nella fede e per la fede del soggetto:

«Questa formula fondamentale – scrive dunque l’Ebeling – suona così: Dio e fede si appartengono vicendevolmente. Essa risulta dal filone principale della teologia luterana e non abbisognerebbe di singole documentazioni. Noi tuttavia la desumiamo da un testo determinato, che per sua definizione ha un peso speciale e che può valere, in quanto è stato certamente formulato con grande cura. Esso può mettere in movimento il nostro sviluppo di quella formula fondamentale. Il nostro ulteriore interrogativo sul discorso di Lutero intorno a Dio, infatti, non può consistere in altor che nella riflessione su questa formula fondamentale: fino a che punto la comune appartenenza tra Dio e fede ci fa comprendere ciò che significa Dio. Il testo si trova nel “Grande Catechismo”, al principio del commento (di Lutero) al primo comandamento: “Tu non devi avere altri dèi”. Cioè, tu devi ritenere soltanto me per tuo Dio. Che significa ciò e come lo si deve comprendere? Che significa avere un Dio, ossia che cosa è Dio? Risposta: “si chiama Dio ciò a cui ci si deve rivolgere per ogni bene e in cui avere rifugio in tutte le necessità. E quindi avere un Dio non vuol dire altor che confidare di cuore in lui e credere, come io ho detto spesso, che soltanto la fiducia e la fede del cuore producono ambedue gli effetti: Dio e l’idolo. Se la fede e la fiducia sono rette, anche il tuo Dio è retto, e – viceversa – dove la fiducia è falsa e ingiusta, ivi non si tratta il vero Dio. Le due realtà, difatti, fanno un tutt’uno, fede e Dio. Ora … ciò cui tu ti attacchi e dove tu lasci il tuo cuore, questo è veramente il tuo Dio”. Vogliamo subito ammettere quanto sia pericoloso questo testo. Se, in un primo tempo, nei riguardi della risolutezza del linguaggio di Lutero intorno a Dio, avevamo l’impressione che ci fosse una notevole distanza dallo spirito moderno, ora Lutero vi appare invece addirittura inquietamente vicino. Si potrebbe quasi credere di sentire Ludwig Feuerbach: Iddio è una proiezione e un prodotto dell’uomo, anzi è essenza dell’uomo: trasformazione e risoluzione della teologia in antropologia. Feuerbach, che inizialmente era egli stesso teologo, s’intendeva delle opere di Lutero ed ha pubblicato una ricerca sulla “Essenza della fede nel senso di Lutero” (1884) a illustrazione del suo scritto “L’essenza del cristianesimo”» (18).

Si noti, da quanto sottolinea l’Ebeling, la grande capacità di Lutero nel dissimulare per ortodossia di fede quanto invece è liquame di derivazione gnostico-antropocentrico. Il linguaggio usato nel suo commento al primo comandamento, contenuto nel “Grande Catechismo” è, a prima vista, sorprendentemente cattolico, apostolico, perché è tradizione che dove l’uomo, nella sua libertà, volge il suo cuore è il suo tesoro e che, pertanto, l’uomo può scambiare l’idolo – il potere, la lussuria, il denaro, etc. – per Dio. Ma, come giustamente rileva Ebeling, nel contesto della sua teologia, Lutero assegna a questa formula tradizionale un altro e ben diverso significato riducendo Dio stesso nel perimetro dell’io, della retta fede “fiduciale” soggettiva, sicché è l’uomo ha creare tanto l’idolo quanto Dio. Ebeling ha, qui, il merito di smascherare il mimetismo luterano, lo stesso che ha fatto in modo di far ritenere Lutero un esegeta fedele ad Agostino d’Ippona o all’apostolo Paolo laddove invece egli dell’uno e dell’altro è un manipolatore e un deturpatore.

Ecco, dunque, il soggettivismo di Lutero. Un soggettivismo che si riscontra anche nel metodo dell’“auto-illuminazione”, dedotto dalla tradizione gnostico-ermetica ed utilizzato da Lutero. Ricordando, nei suoi scritti, quella che chiamò l’“esperienza della torre”, lo si accennava all’inizio di questo paragrafo, egli afferma di aver avuto una intima, introspettiva, certezza di salvezza mentre leggeva un passo della Lettera ai Romani di san Paolo, quello nel quale l’apostolo afferma che il giusto è salvo per fede. Ma, naturalmente, avendo deciso di seguire il proprio “illuminismo intimistico”, e non la Tradizione esegetica della Chiesa, quindi non l’esegesi che fu anche di san Paolo, Lutero, nell’ansia di placare la sua ossessione per il presunto “peccato ontologico” dell’uomo e quindi nell’angoscia psicologica di avere certezza della propria salvezza personale, dedusse da quel passo quanto egli voleva dedurre, che cioè l’uomo è salvo anche se determinato ontologicamente dal peccato, e non quel che esso effettivamente afferma, alla Luce della Rivelazione veicolata dal Corpo Mistico di Cristo, ossia che la fede salva, certo!, ma in quanto consente alla Grazia di agire per la trasformazione del cuore umano. La distinzione tra i fenomeni soprannaturali e quelli preternaturali è un antico problema con il quale la Chiesa da sempre si confronta ogni volta che deve giudicare l’origine di una fenomenologia mistica. La Chiesa sa benissimo che anche l’angelo caduto ha un certo potere di sedurre mediante l’“illuminazione”. Il misticismo “illuministico” è sempre stato una forte tentazione, come nel caso, lo vedremo, degli “alumbrados” spagnoli.

E’ bene sottolinearlo ancora una volta: nel soggettivismo fideistico di Lutero il mondo è già inteso come rappresentazione dell’io, nel senso che sarà proprio di tutto l’idealismo tedesco da Kant ad Hegel, passando per Fichte, Schelling e Schoupenauer e fino, a ben vedere, all’esito ultimo dell’idealismo che è stato, quale quintessenza “antichista” e “reazionaria” della modernità profonda, l’idealismo “magico-realista” di Julius Evola – nient’affatto antimoderno ma piuttosto radicalmente ultramoderno, postmoderno, nella misura in cui nella modernità riaffiora l’antica gnosi spuria, ossia la tentazione prometeica dell’auto-deificazione – il quale, nella sua fase di transizione filosofica dal dadaismo alla fenomenologia alchemico-esoterica, in polemica nicciano-stirneriano-solipsista con l’idealismo ancora, a suo giudizio, troppo “teologico” di Georg Wilhelm Friedrich Hegel e di Giovanni Gentile, scriveva: «La bandiera che il vento agita, come bandiera non esiste. Occorre non accettare assolutamente nulla, diffidare, staccare la crocefissione. Io sono Dio se “egoizzo”, se nego, là dove mi abbandono sono un bruto, una donna. Accettar la vita significa abbandonarsi, abdicare: vigliaccheria. V’è una libertà che è la peggior schiavitù; vivere è una non-esistenza: sentimento, pensiero, emozione, amore. Esiste una forza di gravitazione umana che, pertanto, esiste in quanto io la concepisco: là è il male, l’inconcepibile, l’impuro; ma in noi esiste parimenti l’altro potere, la possibilità di realizzare una gravitazione “in senso opposto”: là è il nostro potere divino, la nostra “proprietà”. E la seconda forza arresta la caduta infinita che la prima impone: nell’equilibrio tutte le cose divorano se stesse: da qui il caos, la morte, la disorganizzazione; la nostra vita e la nostra purità. Possedere, non essere posseduto» (19).

Probabilmente il soggettivismo anti-tradizionale, che non potrebbe mai darsi senza il contraccolpo dell’accettazione di un apofatismo assoluto, ha toccato, qui, nel pensiero evoliano, il suo vertice abissale nel senso che mentre si illude, tantricamente, sull’”Uomo come Potenza”, e sulla teorica fenomenologica dell’“Individuo Assoluto”, in realtà sprofonda lo spirito negli inferii del “nulla” sicché, alla fine, deve, per essere coerente, negare persino l’io dissolvendolo nella dinamica manichea del “doppio contrario”, nel contrasto di due forze “divine” eguali, contrarie e dialetticamente complementari o, per usare il linguaggio cinematografico di George Lucas, dei due lati dell’Unica Forza, che se lo contendono fino a lacerarlo. La gnosi spuria, luciferina, attraversa nei secoli il pensiero filosofico svelando la segreta parentela che unisce le posizioni più insospettabili di vicinanza, come appunto quelle di un Lutero e di un Evola. Sulla base della concezione luterana come di quella evoliana, infatti, a ben vedere, non potrebbe affermarsi alcuna autentica oggettività di Dio al di fuori di ciò che il soggetto sente e crede come vero. Questo perché in Lutero è già affermata la riduzione della realtà all’“io” – la realtà esteriore quale proiezione cristallizzata dell’io, e pertanto negativa sicché se ne impone la rimozione – che sarà di tutto l’idealismo, fino appunto all’Evola dell’“idealismo magico”.

DAL SOGGETTIVISMO ALL’ODIO PER LA CHIESA

Senza il soggettivismo fideistico non può capirsi neanche l’odio di Lutero verso la Chiesa. Egli, concependo la fede nei termini di una intimistica, solipsistica introspezione soggettiva, considera la Chiesa inutile, anzi di intralcio all’atto di fede inteso quale “illuminazione” immediata e diretta. La “chiesa”, per Lutero, è solo quella “invisibile”, “pura”, “incorporea”, quella che vive di “sola fide” nell’interiorità soggettiva di ciascun cristiano e che si rende soltanto occasionalmente visibile nelle riunioni assembleari dei fedeli, ossia nella comunità egualitaria ed a-gerarchica dei fedeli riuniti per la celebrazione della “Cena Domini” come mero ricordo inattuale. Lutero nega radicalmente la realtà della Chiesa, la sua necessità, il Sacerdozio, il valore stesso dei Sacramenti che, infatti, nel protestantesimo vengono tutti, o quasi, azzerati. Né poteva Lutero affermare la validità dei sacramenti negando il Sacerdozio perché il Sacerdozio ministeriale è strettamente connesso all’Eucarestia ed al fondamento apostolico e “melchisedekiano” della Chiesa. In tale prospettiva il Papa diventa l’ “anticristo” e la Chiesa cattolica, con il dogma e la disciplina liturgica, è responsabile della “repressione” della libertà dei cristiani. In realtà, furono proprio le chiese protestanti a subire l’assoluta soggezione al potere degli Stati nazionali. La Chiesa cattolica ha invece sempre trovato, nel Papato, la forza di resistere alle invadenze illecite del potere politico ed economico. Le chiese luterane, sono diventate sin dal loro comparire sulla scena storica immediatamente subalterne al potere politico aprendo la strada al processo di secolarizzazione, e all’accettazione indiscussa di un capitalismo liberista dalle spietate leggi del mercato che si presumono inderogabili. La riduzione in senso soggettivistico ed individualistico della fede ha comportato, in tema di predestinazione, un esito teologico irrazionalista. Chi stabilisce che uno è salvato e l’altro no? Lutero (e ancor più, dopo di lui, Calvino), è costretto a dare una risposta assolutamente ripugnante perché presuppone un Dio senza misericordia che sceglie con totale irrazionalità. Dio, secondo Lutero, in una massa che è tutta votata alla dannazione, sceglie alcuni uomini in un modo assolutamente arbitrario sulla base della sola giustificazione per fede senza che questa, la fede, comunichi la Grazia trasfiguratrice del cuore, risanatrice della ferita del cuore, che resta, sicché anche il più terribile assassino, se ha fede, è salvo nonostante i suoi crimini. Questa arbitrarietà divina è l’elemento che lascia l’uomo in balia di un “dio” dai tratti capricciosi e dispotici ed ha chiare radici occaministe dato che Lutero si formò anche sui testi della filosofia nominalista. Infatti, secondo Gugliemo di Ockham il bene e il male dipendono solo dalla volontà divina: se qualcosa è bene, lo è solo perché Dio ha stabilito che sia così, e lo stesso si deve dire del male (“arbitrarismo divino”). Cosa sia bene e male, però, è stabilito da Dio in un orizzonte di assoluta irrazionalità e di solo volontarismo ed ecco perché Dio potrebbe anche decidere che tradire un amico o uccidente un figlio sia cosa buona mentre amare il prossimo sia cosa malvagia. Un Dio siffatto, è conseguenziale, può dichiarare “giusto” un uomo peccatore senza alcun pentimento da parte di quest’ultimo. Qui sono le basi della concezione luterane della giustificazione quale atto divino esterno all’anima peccatrice che, pertanto, non cambia nell’intimo l’uomo (“estrinsecismo della giustificazione”). Sia detto en passant: ben si comprende perché mai Umberto Eco, nel suo “Il Nome della Rosa”, tutto inteso a dichiarare il relativismo della verità, anzi l’inesistenza della verità, abbia dato al personaggio principale del romanzo, Guglielmo di Baskerville (congiunzione nominativa di Guglielmo di Ockham e di Sherlock Holmes, l’investigatore razionalista inventato dallo scrittore Arthur Conan Doyle, che compare nel romanzo “Il mastino dei Baskerville”), le fattezze fisiche e di pensiero del filosofo nominalista.

UNA CRISTOLOGIA FALSA ED ERRATA

Quanto siamo andati fin qui spiegando circa la responsabilità di Lutero nel dramma della frattura dell’analogia ci consente anche di comprendere, a fondo, i veri motivi dei suoi errori cristologici e di quelli relativi all’Eucarestia. In Lutero vi è un vero e proprio orrore per la carne e, senza dirlo apertamente ma sussurrandolo sullo sfondo, per l’Incarnazione. Un rifiuto implicito, sotteso, non detto apertamente ma comunque appunto sussurrato, dell’Umanazione del Verbo di Dio, parallelo all’affermazione di una antropologia radicalmente negativa che vede nell’uomo soltanto corruzione irredimibile. L’uomo, per Lutero, è essenzialmente peccato che la Grazia non può cancellare ma solo nascondere agli occhi di Dio Padre: è questa, quella di essere “coperta del peccato”, sarebbe la funzione di Cristo.

Ecco perché cade qualsiasi ipotesi di un Lutero “teologo agostiniano”. Egli è invece un esegeta infedele sia ad Agostino che a Paolo dalle cui opere e lettere apostoliche pur pretese di attingere a supporto della sua teologia equivoca. Non siamo noi ad affermarlo. Molti esperti studiosi di Lutero lo hanno dimostrato e rimarcato. Tra gli altri il già citato Theobald Beer, professore di teologia a Regensburg e sacerdote cattolico emarginato nella stessa cattolicità accademica, oggi troppo aperta al protestantesimo, ma molto apprezzato da Joseph Ratzinger (20). Lutero, che in quanto a superbia caratteriale non era secondo a nessuno, nelle sue opere, in diversi passaggi, irride l’Ipponate. Esattamente laddove il padre latino della Chiesa afferma l’autonoma dignità delle creature in Dio, nella partecipazione ontologica al Creatore. La scelta per un apofatismo radicale, mutuata dalla squilibrata spiritualità “renana” del tempo, porta Lutero a negare qualsiasi dignità alla creazione e quindi anche all’uomo. Sicché egli inevitabilmente viene a trovarsi in chiara difficoltà sia con il dogma cristologico niceno-costantinopolitano sia con la fede della Chiesa nella Presenza Reale di Cristo nell’Eucarestia. In Lutero ritorna l’antico rifiuto, di origine gnostica, verso la “contaminazione” del Divino con la materia, che, mutuandolo dalle fonti ermetiche cui attinse, egli traspone nella sua teologia. La “corruzione assoluta” della creatura umana, della carne, ed in generale dell’ente che non è nulla di fronte al “Nulla Eterno” del quale niente possiamo dire o affermare, è la traduzione luterana dell’orrore gnostico per la materia che, come detto, lo porta a contestare la cristologia cattolica e la realtà del sacramento dell’Eucarestia.

Secondo Theobald Beer, Lutero ha costruito una falsa cristologia dipendente dalle fonti ermetico-neoplatoniche da lui utilizzate. A tale conclusione il Beer è giunto mediante un attento esame dei testi di Lutero che, a questo proposito, sono inequivocabili. La teologia di Lutero propone una cristologia “accidentalista” che, come ricorda Beer, è in netto contrasto con Agostino e con i Padri. Ad esempio, in una delle sue annotazioni del 1509 al “De vera religione” di Agostino, Lutero afferma: «Cristo è fatto (factus) ad immagine di Dio, ipostaticamente, ma aggiunto (addictus) ad essa». Una affermazione del genere era già stata rifiutata dai Padri della Chiesa per i quali essa è eretica. Per i Padri come per Agostino, infatti, Cristo è Dio e non “factus ad imaginem Dei” come se Egli fosse una parte qualsiasi della creazione (21). Si tratta di una affermazione dal sapore ariano.

L’eresia etimologicamente è un scegliere la parte per il tutto. Le sue forme, nel corso dei secoli, sono sempre le stesse benché di volta in volta rimodulate tanto da apparire nuove. L’eresia mira a colpire al cuore la fede cristiana nell’unione ipostatica divino-umana, l’et – et, che è svelamento del rapporto analogico tra Dio e mondo, che è rivelazione del contemporaneo nascondimento e svelamento, della contemporanea inacessibilità ed accessibilità, di Dio. Non a caso essa, l’eresia, aggredì sin da subito la fede nella Divino-Umanità di Cristo, generando le due contrapposte ma complementari posizioni del monofisismo e, appunto, dell’arianesimo. Le quali, come più tardi accadde quale conseguenza anche nel caso della negazione luterana dell’analogia, optarono, mediante la negazione rispettivamente dell’umanità o della divinità di Cristo, per l’assorbimento dell’umanità nella divinità o per la separazione tra divinità ed umanità quale momento propedeutico e necessario per affermare l’auto-divinità dell’uomo ossia la riduzione del divino nell’umano.

In un passo del 1551, Lutero rifiuta la definizione di Cristo come “persona” attribuendone la paternità ai filosofi ed ai logici. I teologi “puri”, invece, secondo Lutero, dovrebbero chiedersi piuttosto “cosa è” Cristo. Lutero, qui, avanza la sua esegesi funzionalista: Cristo non sarebbe “persona” ma “funzione”. Questo tipo di approccio gli consentiva di placare l’ansia psicologica che lo tormentava. Egli, infatti, era ossessionato dalla convinzione della intrinseca peccaminosità dell’essere e, quindi, anche della natura umana. Questa convinzione gli derivava dall’idea di un Dio refrattario verso la creatura totalmente corrotta e dunque irraggiungibile ed inconoscibile per l’uomo. La “misericordia” di Dio, in questa prospettiva, si risolve nell’arbitrarietà della predestinazione che salva alcuni e condanna gli altri senza che la natura intrinsecamente malvagia dei predestinati sia in qualche modo trasformata dalla grazia. L’idea luterana di Dio è quella di un “tiranno”, di un “Padre despota”, che riecheggia antiche suggestioni platoniche sul demiurgo ingannatore e creatore o marcionite sulla opposizione tra il “Dio Amore” del Nuovo Testamento e il “Dio Iracondo” del Vecchio Testamento. Suggestioni che, più tardi, saranno riprese dalla psicoanalisi freudiana la quale pone la felicità dell’uomo nell’uccisione introspettiva del padre. Lutero, pertanto, preoccupato per la sua personale salvezza, era alla ricerca – ecco il punto messo in luce dal Beer – di un’àncora, “qualcosa” e non “qualcuno”, cui potesse aggrapparsi per calmierare la sua ossessione ed ottenere la presumibile certezza di essere annoverato tra i predestinati alla salvezza. Negato che la grazia di Dio possa trasfigurare il cuore dell’uomo, intrinsecamente corrotto, Cristo diventa, in Lutero, la roccia, lo scudo, che ci protegge dalla collera divina. Il Cristo-funzione, “non persona”, di Lutero non cancella ma si limita a coprire il peccato. Essendo la natura umana integralmente corrotta, anzi essendo essa stessa, e pertanto l’essere medesimo, “peccato”, non è possibile alcuna trasformazione del cuore umano ma soltanto frapporre tra l’ira divina e l’uomo un “velo” che, pur lasciando la natura come la trova, ossia intrinseco marciume, salvi l’uomo dalla perdizione per la quale, in quanto essere e dunque “corruzione”, è stato creato.

L’uomo luterano è essenzialmente destinato, vocato, alla dannazione e solo il Cristo/funzione, che copre agli occhi di Dio l’ontologica malvagità della natura umana, può evitargli tale destino. L’uomo, intrinsecamente corrotto dal peccato, rimane, pertanto, peccatore anche se salvato: “simul iustus, simul peccator”. In tal senso anche la Misericordia di Dio non può trovare alcun vero fondamento. Essa è solo una esteriore sentenza di arbitraria predestinazione che non cambia l’uomo, non lo apre per davvero all’Amore salvifico e trasfigurante di Dio.

Contro le interpretazioni in voga in Germania, che sono prevalentemente di tipo “storico” e particolarmente attente all’attuale atmosfera ecumenica, Theobald Beer ha indagato la cristologia di Lutero –  la questione del “chi è Cristo” per Lutero – perché la cristologia è al centro della fede cristiana. La scoperta del Beer sull’uso ambiguo, da parte di Lutero, della parola hypostatice, annullata nel suo vero significato teologico e dogmatico dall’espressione aggiuntiva sed additus, è epocale perché dimostra che per il monaco tedesco Cristo non è persona. Di Lui rimane solo la funzione di copertura dall’ira divina ed esaurendosi la “funzione” si esaurisce anche Cristo. Dalla posizione che Lutero assume di fronte a Cristo, ha osservato Beer, dipende tutto il resto. Proprio a causa di questa cristologia erronea Lutero non comprende la profonda unità presente nell’Incarnazione. Nel 1508 egli scrive: «Se si dice che Cristo è composto (compositus) e si intende il termine nel suo senso stretto (proprie), allora è giusto. Se invece si afferma che Cristo è costituito (constitutus), allora ciò è falso». Un testo come questo rende chiaro anche ai ciechi che Lutero tende alla scissione della Divino-Umanità. Un suo contemporaneo, Hieronymus Dungersheym, infatti lo accusò di arianesimo. La cosa non sfuggì neanche ai suoi seguaci contemporanei. Scabwenckfeld, un nobile della Slesia inizialmente legatosi a Lutero, ruppe con lui rimproverandogli in una lettera che: «Il tuo discepolo Vadian a St. Gallen va sostenendo che l’umanità in Cristo è un’aggiunta. Ma ciò non concorda con quel che dicono i padri». Anche altre affermazioni di Lutero portano alle conclusioni cui è giunto Theobald Beer. Come quella, del 1511, nella quale egli afferma che Cristo è fatto per il Padre, nato per la Madre ossia nato uomo secondo modi naturali. Affermazione che presuppone la negazione implicita della Verginità di Maria, sicché non a caso la devozione cattolica per la Madre di Dio era per Lutero “idolatria”.

 

Il Beer contesta la tesi di coloro i quali, accortisi del problema cristologico in Lutero, hanno sostenuto che la sua lacunosa cristologia deve essere attribuita alle manipolazioni di Melantone, il divulgatore del luteranesimo in Germania. In realtà Melantone, un umanista cristiano, non ha fatto altro che portare alle estreme conseguenze gli errori di Lutero. Come, ad esempio, sulla questione della redenzione e della creazione. Laddove in Lutero è già affermato che l’Umanità di Cristo non ha in nulla cooperato alla salvezza – humanitate nihil cooperante (Beer, in proposito, citando Yves Congar, osserva che qui si tratta di una sorta di monergismo per il quale, appunto, l’Umanità di Cristo non coopererebbe alla giustificazione) – Melantone radicalizza tale affermazione fino a giungere a parlare di natura conditrix ossia ad affermare che Cristo non assume ipostaticamente la natura umana ma che questa gli è aggiunta per via, appunto, naturale. In altri termini, Melantone non fa altro che portare alle sue inevitabili conseguenze la cristologia già di suo erronea di Lutero, fino a proclamare apertamente quel che nel suo maestro è sussurrato ossia che Cristo sarebbe solo un uomo “aggiunto”, “addictus”, alla Divinità. La quale pertanto, nella sensibilità gnostica mutuata dalla fonti equivoche sulle quali ha costruito la sua teologia, resta del tutto pura ed incontaminata dal contatto con la materia, con la carne, con l’umanità. L’utilizzazione di fonti neoplatoniche ed ermetiche, anche attraverso la mediazione di testi non privi di una certa ambiguità come la “Theologia Deutsche”, è causa anche del riaffiorare nella teologia di Lutero di argomenti anti-biblici e di posizioni marcionite che sono alla base del suo noto antigiudaismo (che dunque rivela fondamenti del tutto diversi da quelli che furono propri del coevo anti-giudaismo cattolico, mai teologicamente anti-ebraismo ma solo storicamente, benché spesso poco caritativamente, momentaneo ossia affermabile solo fino a quando la Sinagoga vuol restare bendata di fronte a Cristo).

 

Theobald Beer ricorda che il Concilio di Trento non conosceva le moltissime annotazioni, circa millecinquecento, di Lutero a margine dei testi di Agostino, Piero Lombardo, Taulero, Gabriele Biel. Queste annotazioni sono state scoperte solo agli inizi del XX secolo. Sono testi decisivi e se i padri conciliari di Trento li avessero conosciuti avrebbero condannato Lutero tout court ossia senza affrontare le tante questioni che in quell’assise furono dibattute proprio per rispondere alle provocazioni luterane. Questo, però, ci da modo di essere grati alla Provvidenza, perché dobbiamo, appunto provvidenzialmente, proprio alle provocazioni luterane se il Tridentino ci ha lasciato in eredità un ancora insuperato, ed insuperabile (anche il Vaticano II gli è debitore), approfondimento teologico della Verità di Fede (22).

Luigi Copertino

CONTINUA

 

NOTE

18) Cfr. Gerhard Ebeling “Lutero, un volto nuovo”, op. cit, pp. 231-232.

19) Cfr. Julius Evola “Note di filosofia dada”, 1919, in Catalogo della Mostra “Julius Evola e l’arte delle avanguardie tra Futurismo, Dada e Alchimia”, Milano, 1998.

20) Cfr. “Lutero cattolico? Nemmeno per idea” intervista di Tommaso Ricci a Theobald Beer sul numero 4 del giugno 1983 della rivista 30Giorni nella Chiesa e nel mondo. Quanto, nel nostro testo, sintetizziamo degli studi del Beer su Lutero lo dobbiamo in particolare a questa intervista.

21) Vogliamo qui aggiungere che, stando al Genesi, è piuttosto Adamo, ossia l’uomo creatura e dunque per estensione l’umanità intera, ad essere Icona dell’Adam Kadmon, ossia il Verbo Divino, che da il “nome” ovvero l’essere, a tutte le cose. In altri termini è Adamo ad essere l’Icona del Verbo che nel Progetto d’Amore di Dio era già chiamato, anche prima del peccato umano, ad Incarnarsi (il rifiuto dell’Incarnazione, il rifiuto che Dio si “sporcasse” con la materia, ritenuta impura, fu, stando alla Tradizione, il motivo della ribellione di Lucifero, il “primo degli gnostici”, insuperbitosi per la sua privilegiata posizione di vicinanza ontologica al Signore tanto da ritenere, appunto, la creazione materiale qualcosa di inferiore e “sporco”). In questo senso l’uomo è fatto ad immagine del Verbo di Dio già prima dell’Incarnazione sicché, dopo di essa, è l’uomo ad essere svelato come Icona di Cristo, Verbo consustanziale al Padre.

22) Almeno ad un livello dotto, alto, alcuni protestanti paiono oggi disposti ad una riflessione seria sulle fonti della teologia di Lutero e sulle sue conseguenze. Si tratta di studiosi perfettamente consapevoli delle mortali strettoie nelle quali li ha infilati Lutero e che cercano vie per uscirne. Proprio questi, ai quali dovremmo prestare soccorso cattolico, sono quelli che restano sgomenti dall’attuale e tardivo “innamoramento” cattolico per Lutero. Intervistato in proposito Theobald Beer, alla domanda «E i protestanti che cosa dicono degli studiosi cattolici di Lutero?», ha significativamente risposto: «Potrei citare il nome di eminenti studiosi evangelici che mi hanno chiesto: “ma perché la Chiesa cattolica deve ripetere tutte le assurdità che noi abbiamo commesso nel passato?”. Una volta un esegeta protestante mi ha detto: “quando vedo esegeti cattolici che adottano principi che noi abbiamo abbandonato, mi viene una paura infernale. Mi chiedo se saremo puniti per questo”». Sempre Beer, nella stessa intervista, alla domanda «Con il suo libro pensa di aver ostacolato il dialogo ecumenico?» ha risposto «Il vero ecumenismo l’ho conosciuto nei miei dialoghi con gli evangelici all’est. Inoltre non si può fare ecumenismo se non si lascia parlare Lutero stesso». Cfr. T. Beer “Lutero cattolico? …” op. cit..