IL DIO NASCOSTO E RIVELATO ottava ed ultima parte – Luigi Copertino

IL DIO NASCOSTO E RIVELATO

 SULL’IMPOSSIBILE “CANONIZZAZIONE” DI MARTIN LUTERO

RAGIONI STORICHE, SPIRITUALI E TEOLOGICHE

 OTTAVA ED UL TIMA PARTE

 

DAL LUTERO MITICO AL LUTERO STORICO

Avviandoci alla conclusione, torniamo sul terreno della storia riprendendo le fila di quanto dicevamo in apertura di questo nostro piccolo saggio. Una delle più persistenti mitologie di fondazione del protestantesimo, che segna anche il grado di  feticismo esistente intorno alla figura del monaco di Wittenberg, è quella secondo la quale, durante la sua visita a Roma nel 1500, Lutero rimase scandalizzato dalla corruzione del clero. In realtà già a quell’epoca Lutero aveva maturato una concezione “spiritualista” della fede ed il suo “scandalo” – se mai in lui scandalo vi è stato, dato che recenti riletture hanno messo in evidenza l’inattendibilità storica dell’agiografia degli inizi luterani – fu soltanto strumentale alla negazione della visibilità e corporeità della Chiesa.

Dal momento che andava già maturando l’idea della invisibilità disincarnata della fede, ridotta ad un introspettivo intimismo che fa dell’“io” il giudice  di Dio, il giudice della realtà oggettiva, dunque dell’esistenza stessa, di Dio – ed in questo è già in nuce, come si è visto,  l’ateismo moderno esplicitamente compendiato, ad esempio, da un Feuerbach – la pretesa della Chiesa cattolica di essere una realtà visibile, gerarchica, di essere comunità, di essere Corpo Mistico di Cristo, non poteva che apparire a Lutero come qualcosa di “diabolico” e di “Anticristico”. Questo smonta ogni illazione in merito ad un Lutero le cui intenzioni sarebbero state solo quelle di contribuire alla riforma della Chiesa, di una “cattiva” Chiesa che, secondo i simpatizzanti cattolici di frate Martino, colpevolmente non lo avrebbe compreso allontanandolo e quindi gettandolo nelle braccia della ribellione e dell’eresia. In realtà egli insiste, quasi da subito, sulla “invisibilità” della Chiesa. La nega, quasi immediatamente. E non solo quale Corpo ecclesiale perché le nega, conseguentemente, qualsiasi fondamento divino e sacramentale. Del resto se si nega la Presenza Reale nell’Eucarestia non può non negarsi anche la Corporeità della Chiesa, e viceversa, posto che tra l’una e l’altra vi è, come abbiamo sottolineato, una stretta ed inscindibile unione.

Papa Francesco ci ha, giustamente, ricordato che «i grandi riformatori della Chiesa sono i santi» (33). Resta però tutto da dimostrare che Lutero fosse tale. Pur rimettendo l’ultimo giudizio solo all’Eterno, non sembra proprio che in Lutero, per quanto travaglio interiore possa in lui esserci stato, siano ravvisabili i crismi della santità. I suoi biografi hanno ricostruito i tratti poco edificanti della sua vita. E’ noto il suo carattere estremamente collerico e rabbioso, sempre pronto alla contumelia ed alla rissosità, come quando incitò i principi tedeschi, che lo mantenevano economicamente, al massacro dei contadini anabattisti e proto-comunisti ribelli (i quali dal canto loro non erano da meno dei principi quanto a massacri). Come più tardi Adolf Hitler – e non riproponiamo questo paragone a caso perché vi è una stretta connessione tra il nazionalismo ecclesiale luterano ed il nazionalismo germanico (34) – anche Martin Lutero ebbe una infanzia travagliata, con un padre tiranno, manesco ed alcolizzato (da qui forse la sua errata idea di Dio quale arbitrario despota dalla cui ira solo Cristo potrebbe coprirci) (35).

Sembra che egli entrò nell’Ordine agostiniano per sfuggire alla pena civile per aver assassinato un coetaneo. Episodio che, poi, l’agiografia avrebbe edulcorato nel presunto incidente – l’amico colpito da un fulmine – che avrebbe spinto il giovane Martino ad abbandonare il mondo. Finì la sua vita sprofondando nella depressione tra dissolutezze sessuali ed abuso di alcool, mantenuto dai principi tedeschi che lo usarono in funzione politica per affermare la loro indipendenza contro l’Impero e la Chiesa e per impadronirsi dei beni ecclesiastici. Sposando, infatti, la tesi luterana della “chiesa invisibile”, nell’intimità fideista, diventa legittimo per il Principe togliere alla Chiesa ogni bene materiale e quindi legarla a sé come instrumentum regni. Il Lutero maturo, a differenza ad esempio di un san Francesco, rifiutò l’obbedienza perché rifiutava l’idea stessa della visibilità corporea della Chiesa gerarchica. Lutero non era un riformatore della Chiesa, come tanti altri nella sua storia, poi canonizzati, che hanno cercato di emendarla dall’immoralità dei cristiani e del clero, ma un demolitore. L’idea luterana della “invisibilità interioristica” della “chiesa”, per cui in base al “sola fide” essa può darsi soltanto introspettivamente e non quale Corpo Mistico e Visibile di Cristo (da qui la sottomissione al Principe di turno), ha per obiettivo – attenzione: prendendo a pretesto la corruzione dei costumi ecclesiastici (come detto, anche prima di lui, molti hanno additato quella corruzione ma sempre senza negare la visibilità gerarchica della Chiesa, strettamente connessa alla Sua sacramentalità) – quello di negare la possibilità medesima dell’esistenza della Chiesa quale Comunità, quale Corpo (sta in questo la radice delle  tesi, non a caso nate in ambito protestante, per le quali Cristo non avrebbe fondato alcuna Chiesa ed anzi avrebbe negato l’idea stessa del Sacerdozio). Ed anche qui torna l’“orrore” luterano per la carne.

Non vogliamo certo negare che è esistito anche un antigiudaismo cattolico – il quale però, lo abbiamo già annotato, a differenza di quello cripto-marcionita di Lutero, aveva radici in una non ben compresa “teologia della sostituzione” come espressa in san Paolo (36) – né negare che anche da parte cattolica i toni polemici usati contro Lutero ed i luterani siano stati poco misericordiosi ed edificanti. L’epiteto meno pesante che, da parte cattolica, fu proferito polemicamente contro Lutero è stato quello di “porcus saxonicus”.

Tuttavia non si può dimenticare – perché impossibile a spiegarsi senza mettere in conto un serio problema di ossessione psicologica che, probabilmente, poteva anche avere aspetti oscuramente preternaturali – il Lutero “iconoclasta”, in preda ad un vero e proprio “odium theologicum”, al limite dell’invasamento. Già abbiamo ricordato, sotto questo profilo, le forti somiglianze biografiche con un altro noto tedesco, Adolf Hitler. Persino un esegeta estimatore di Lutero come il cardinal Walter Kasper non ha potuto negare che nel suo pupillo qualcosa non quadrasse e che, pertanto, i conti del facile ecumenismo non possono tornare come pure lo stesso Kasper vorrebbe. In un suo recente libro (37) l’ecumenico cardinale tedesco è stato costretto a riconoscere che il vero Martin Lutero, quello della storia, è molto diverso dall’iconografia “beatificante” che è diventata egemone in ambito cattolico dopo il Vaticano II e senza che il Concilio abbia nulla detto a suo favore dato che quell’Assise in nulla ha toccato le formulazioni dogmatiche del Tridentino.

Così, ad esempio, Kasper è costretto ad ammettere che dietro la Riforma si nascondevano evidenti “ragioni politiche” e che Lutero diventò il burattino «nelle mani della nobiltà cristiana e dei magistrati delle città imperiali» (pg. 37). Consegnandosi a nobili e principi, Lutero ha posto le premesse per la frammentazione della Cristianità favorendo, come riconosce Kasper, il particolarismo ecclesiale e politico ed il «nazionalismo che spesso prese colore confessionale e riservò all’Europa molte sventure». Infatti «dal punto di vista ecclesiale si arrivò, già durante la vita di Lutero e completamente dopo la sua morte, a una dissoluzione dell’unità anche all’interno del movimento riformatore e ad un funesto pluralismo all’interno della cristianità occidentale e poi dell’intera cristianità». Lutero, che auspicava la libertà ecclesiale dalle ingerenze romane, pose le basi della nazionalizzazione ecclesiale asservendo le “chiese protestanti” al potere dei sovrani. Per questa via non tutelò affatto la «coscienza soggettiva», che pur usava quale arma contro il “dogmatismo romano”, ma sottopose la coscienza all’imperativo assoluto dell’autorità secolare (p. 44).

Ancora Kasper, noto per le sue posizioni ecumeniche molto avanzate, è costretto ad ammettere che: «Lutero non fu una persona ecumenica. Verso la fine della sua vita egli non ha più ritenuto possibile una riunificazione con Roma» (pg. 11), dolendosi anche del fatto che sugli ebrei « … si espresse con disprezzo, in modo … imbarazzante… » e che fu feroce nel giudizio sugli stessi movimenti, come l’anabattismo, che erano nati dalla sua teologia benché egli non volesse riconoscerlo, dato che riconoscerlo avrebbe significato per lui ammettere di aver drammaticamente sbagliato tutto.

A proposito della «violenza di linguaggio che gli era propria» Kasper deve riconoscere che Lutero era « … rozzo e sgarbato fino a farsi odiare, ma altrettanto devoto, delicato e sincero …» (pg. 23). Duro in modo difficilmente superabile, dice ancora Kasper, presentava la sua teologia secondo un aut-aut che lo portava a «formulazioni a volte esagerate e a stento accettabili, come quella secondo cui l’uomo è come un animale da sella che viene cavalcato da Dio o dal diavolo» (pg. 45).

Lutero si riteneva apocalitticamente in lotta con l’Anticristo che però individuava nel Papato –  Kasper ricorda le parole di Lutero sul Papa «escremento del diavolo, capo di assassini») e sul Papato «maledetto, dannato, sterminato sia il papato» – sicché i cattolici, ed in particolare gli italiani, diventano nella sua letteratura “manigoldi” (qui possiamo trovare la radice dell’anti-italianità dei Paesi protestanti, sia anglosassoni che tedeschi, ma anche la causa dell’abitudine di noi italiani all’auto-commiserazione che dal Risorgimento liberal-massonico in poi ci è stata inculcata perché, nell’ottica liberale, storicamente siamo colpevoli di non aver accettato la Riforma). Egli si riprometteva di «strappar la lingua al papa e infilarlo alla forca con tutta la plebaglia che lo idolatra» e dichiarava che: «tutti i postriboli, gli omicidi, i furti, gli assassinii e gli adulteri, sono meno malvagi di quella abominazione che è la Messa papista».

Gonfio di ira e di orgoglio Lutero ebbe espressioni offensive verso Niccolò Copernico, Erasmo da Rotterdam e Tommaso Moro, mentre i teologi di Lovanio assurgevano, per lui, al rango di «asini grossolani, scrofe maledette, sacchi di bestemmie… brodaglia maledetta dell’inferno». Lutero, e Kasper non può negarlo, mentre poco caritativamente apostrofava tutto e tutti si sottomise al potere dei principi – del “Principe” di Machiavelli –, dato che nella sua teologia è posta una separazione assoluta tra interiorità luogo di Dio ed esteriorità luogo di Satana, per ottenerne appoggio e sostegno nella sua lotta alla “Chiesa/Anticristo” ed è anche per questo che approvò la spietata repressione nobiliare degli anabattisti, i quali non avevano fatto altro che portare alle estreme conseguenze i postulati della sua teologia, e dei contadini che nel riformismo religioso speravano di trovare una via anche politica per rovesciare le loro dure condizioni di vita.

ERA POSSIBILE EVITARE LO SCISMA?

Lutero, lo si è visto, è il padre teologico del soggettivismo dal quale – ne era convinto anche un pensatore, non certo imputabile di “tradizionalismo”, come Jacques Maritain – sono scaturite molte, se non tutte, delle filosofie e delle ideologie moderne. Scomunicato il 3 gennaio 1521, Lutero è responsabile di quello che forse è il più tragico evento nella storia cristiana ossia lo scisma dal quale divamparono le disastrose e cruentissime guerre di religione. Lo ammise anche Melantone che scrisse: «Tutta l’acqua dell’Elba non potrebbe fornire lacrime sufficienti a piangere i disastri della Riforma: il male è senza rimedio». Il sociologo protestante Jean-Paul Willaime ha onestamente riconosciuto che le radici del fondamentalismo moderno sono tutte in Lutero e che lo stesso protestantesimo altro non è che fondamentalismo o comunque origine degli atteggiamenti fondamentalisti, che – aggiungiamo noi – hanno spesso contagiato anche i cattolici più conservatori e più tradizionalisti. San Pio X, nella “Pascendi”, ricorda che «l’errore dei protestanti fu il primo a muovere il passo».

C’è tuttavia chi è di parere diverso e ritiene che non sia stato Lutero a volere lo scisma ed addirittura che esso, nato tra 1517 e 1531, sarebbe stato approfondito dal Concilio di Trento mentre si sarebbe potuto evitarlo se si fosse ascoltato seriamente il parere di coloro che, come il cardinal Reginald Pole, ottimo teologo il quale fu ad un passo dall’elezione al soglio pontificio mancato per un voto, avevano a cuore l’unità della Chiesa. Lo scisma, quindi, sarebbe imputabile agli oltranzisti curiali, quali il cardinal Carafa poi Papa Paolo IV, che non vollero mediare, ed ai vescovi passati alla Riforma perché asserviti alla nobiltà tedesca la quale, dal canto suo, voleva impadronirsi dei beni della Chiesa.

Senza dubbio ci sono state anche sicure corresponsabilità da parte cattolica, ma tentare di sottrarre Lutero alla sua responsabilità, che resta primaria, nella rottura è poco storicamente sostenibile e soprattutto poco convincente.

Abbiamo rilevato come persino un filo-luterano quale il cardinal Kasper è costretto ad ammettere che in Lutero mancava qualsiasi disponibilità non solo all’obbedienza quanto anche al dialogo, come provò a sue spese il povero cardinal Tommaso De Vio, detto il Gaetano, una delle più grandi figure della Chiesa del tempo, inviato in Germania per esaminare, in un faccia a faccia con lui, le tesi luterane e che, avendo non approvato alcune di queste tesi, si vide trattare dal suo interlocutore in modo a dir poco violentemente offensivo. Anche l’imperatore Carlo V imparò a conoscere l’intolleranza caratteriale di Lutero quando il monaco convocato alla dieta di Worms (1521), per discutere le sue tesi, ne saggiò la superbia furibonda per la quale il monaco giunse ad affermare che la Chiesa era stata in errore per un millennio e mezzo fino a quando non era giunto lui, Lutero. Carlo V abbandonò disgustato la dieta ma, fedele alla parola data, rispettò il salvacondotto che assicurò a Lutero il rientro a domicilio, anche se il suo protettore Federico il Savio lo fece rapire per portarlo in un castello della Turingia affinché sfuggisse alla giustizia imperiale. Carlo V, nell’occasione di Worms, tentò anche di ricondurre i principi tedeschi ribelli a miglior consigli richiamando però fermamente il suo dovere di imperatore cattolico. Infatti, il giorno successivo alla riunione di Worms, Carlo V convocò in seduta separata i sette elettori e i maggiori principi e disse loro: «Voi sapete che io discendo da un lungo lignaggio di imperatori cristiani di questa nobile nazione tedesca, dai re cattolici di Spagna, dagli arciduchi d’Austria e dai duchi di Borgogna. Essi sono stati tutti fedeli sino alla morte alla Chiesa di Roma e hanno difeso la fede cattolica e l’onore di Dio. Ho deciso di seguire i loro passi. Un solo frate che va contro tutta la cristianità di un migliaio di anni deve essere nell’errore. Perciò ho deciso di rischiare le mie terre, i miei amici, il mio corpo, il mio sangue, la mia vita e la mia anima. E non soltanto io, ma anche voi di questa nobile nazione tedesca, su cui cadrebbe eterna vergogna se per negligenza vostra dovesse sopravvivervi non dico l’eresia, ma il mero sospetto di eresia».

Sicuramente gli “oltranzisti” della Curia romana avrebbero potuto muoversi meglio ma le loro ragioni non erano affatto peregrine. La Chiesa del tempo aveva certamente bisogno di una riforma e la ricerca di una spiritualità più marcata, senza però entrare in contrasto con la corporeità ecclesiale e la Tradizione, era un terreno calcato da tanti, all’epoca, ben prima che Lutero iniziasse a porre i problemi della Riforma. Il cardinal Pole era tra coloro che cercavano vie nuove senza abbandonare la fedeltà alla Chiesa. Tuttavia, quando si percorrono certe strade, gli equivoci spirituali sono sempre in agguato e ci sembra che anche Pole e le sue fonti non siano del tutto sfuggiti a tali equivoci. Ciò non toglie che i contemporanei avrebbero anche potuto accogliere qualcuno dei suggerimenti del Pole, per meglio esaminare il tutto, ma con prudenza ed attenzione discernendo il grano dal loglio. E di loglio ce ne era, senza dubbio, molto. Vedremo, fra breve, approfondendo la linea suggerita dal Pole e dal suo circolo, quali altre ipotesi erano, se erano, possibili in quel momento per evitare lo scisma.

Nel frattempo vagliamo la solidità storica della presunta apertura di Lutero ad una mediazione che salvasse l’unità della Chiesa. Secondo alcuni il Papato, in sé, non era l’oggetto diretto delle rimostranze di Lutero, né stava da principio nel mirino della sua “Riforma”. Forse è possibile che all’inizio lo stesso Lutero credeva di essere ancora nel seminato, salvo poi diventare feroce antipapista, invece di obbedire, quando da Roma fu posto il veto sulle sue posizioni. Il problema storico è che, in quel momento, Roma ossia il Papato si identificava con la persona di Giovanni de Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico,  della nota dinastia di banchieri fiorentini, che era diventato Papa con il nome di Leone X. Un Papa non certo brillante né per costumi né per dottrina né per spiritualità, del quale si dice che non comprese quanto stava accadendo in Germania tutto riducendo ad una “bega tra monaci”. Ma questo può esimere il monaco Martino dall’aver dato un contributo  fondamentale e formidabile agli eventi come si svolsero? Il Lutero che, commosso, va ad limina nella Roma del primo cinquecento era il Lutero ancora “cattolico” ma già in preda al suo travaglio che ben presto lo avrebbe portato a definire il Papa l’Anticristo. Gli inizi non possono, pertanto, offuscare la fine, perché questa era già in germe negli inizi stessi. L’esito di quegli inizi è stato il debordamento dal seminato sicché concludere che, in qualche misura, l’esito non sarebbe stato quello se la Chiesa avesse compreso Lutero per tempo non ci sembra possibile perché gli inizi non erano affatto immuni da equivoci.

In una nota lettera, Lutero scriveva ad Erasmo, che pure detestava, quella che a prima vista potrebbe sembrare una difesa luterana del Papato: «Almeno tu – dice Lutero ad Erasmo – hai capito che il Papa non c’entra niente: ti dico anzi che io sarei pronto oggi ad andare a Roma a baciare la sacra pantofola, se il Papa ammettesse oggi che l’uomo non è libero». Tuttavia, a ben leggere, Lutero, in questa lettera, non dice altro e di più che il Papa deve accettare la sua teologia mentre nulla di quanto dice fa ritenere che volesse egli mettersi in ascolto della Chiesa docente. Lutero dice “se il papa ammettesse oggi che l’uomo non è libero”. Non è chiaro che qui Lutero era già assertore del “servo arbitrio” sicché nella sua concezione l’uomo non è libero, ma determinato inesorabilmente dal peccato e che voleva imporre questa sua teologia, con gravi conseguenze antropologiche, al Papa? Al contrario per la fede cattolica – il Concilio Tridentino non ha fatto altro che ribadire e chiarire, non ha inventato nulla – il peccato ha solo ferito, non corrotto integralmente, la natura umana. Lutero non ha risolto il problema del rapporto tra grazia e libertà, lo ha solo ingessato e, con il “servo arbitrio”, lo ha reso irrisolvibile, nell’immagine di un “dio” irrazionale che salva a suo piacimento chi gli pare indipendentemente dalle opere buone, ossia dai segni esteriori di una trasformazione del cuore. Né la giustificazione per “sola fide”, suggerita in quella lettera ad Erasmo, poteva essere la soluzione cattolica del problema sollevato da Lutero. Quella che lui riteneva la soluzione era invece soltanto la complicazione del problema perché, lo diceva già san Giacomo apostolo, nella sua Lettera apostolica che fa parte del canone biblico – non a caso avversata da Lutero –, la fede senza le opere è morta: detto in altri termini, le opere di misericordia spirituale e materiale sono il segno dell’azione nell’intimo della grazia trasformatrice di Cristo e quindi una fede che non da segni nelle opere è solo presunzione, temeraria, di salvarsi senza la grazia! L’immagine del Dio “iracondo” se le era costruita lui, Lutero, sia perché in lui agivano problemi psicologici risalenti all’infanzia sia perché egli ha troppo insistito sulla sola Giustizia di Dio e troppo mettendo in rilievo i passi veterotestamentari sull’ira di Dio. Non aveva capito – ed a questo nulla toglie il fatto che nel suo tempo, ed anche prima di lui, tanti, anche cattolici, non lo avevano capito – che l’ira di Dio, nella Scrittura, altro non è che l’Amore offeso del Padre, il quale però resta sempre Amore e sempre aperto al perdono ed alla Misericordia se il peccatore si pente.

Veniamo, ora, in conclusione, ad un veloce verifica sulla effettiva percorribilità della via proposta dai mediatori come il cardinal Pole. Chi era Reginald Pole (1500 – 1558)? Egli è stato tra i maggiori protagonisti dell’età della Riforma Cattolica. La sua famiglia era strettamente imparentata con quella dei reali inglesi. Si formò in Italia, in particolare a Padova, ed ebbe modo di frequentare l’agostiniano Pier Martire Vermigli, protagonista italiano della corrente riformista cattolica poi passato alla riforma luterana. Si dedicò allo studio filologico della Bibbia sotto la guida del fiammingo Giovanni di Kampen. Dopo la rottura di Enrico VIII con la Chiesa di Roma, inviò al re, che gli era parente, il trattato “Pro ecclesiasticæ Unitatis defensione”, per convincerlo a tornare sui suoi passi. Pole venne innalzato alla dignità cardinalizia da Papa Paolo III nel 1536. Il Papa lo scelse anche quale membro della commissione, presieduta da Contarini, incaricata di tracciare le linee di una riforma della Chiesa, la quale consegnò al Pontefice il documento “Consilium de emendanda Ecclesia”. Fu poi membro della commissione incaricata di preparare il Concilio. Quando finalmente l’assise fu convocata a Trento, Pole fu legato pontificio al Concilio.

Dunque stiamo parlando di un grande della Chiesa, con diretti  incarichi pontifici, un cardinale sicuramente fedele a Roma e difensore dell’unità della Chiesa contro le tendenze scismatiche, comprese quelle della sua patria d’origine. E tuttavia c’è un episodio nella sua vita, relativo proprio al Concilio, rivelatore di un percorso spirituale che, se senza dubbio si voleva del tutto interno all’ortodossia di fede ed all’integrità della Chiesa, presentava tuttavia anche rischi di deragliamento, i quali se non travolsero mai direttamente Pole finirono per travolgere diversi suoi amici e frequentatori del suo circolo teologico. Pole, che è stato uno dei grandi protagonisti della Riforma Tridentina ossia delle decisioni teologiche che nelle varie fasi del Concilio furono assunte per confermare il Depositum Fidei, abbandonò l’assise conciliare proprio alla vigilia del voto sul “Decretum de iustificatione”, adducendo motivi di salute.

Per capire le vere motivazioni di questo abbandono è necessario approfondire il percorso teologico e spirituale di Pole, che alla luce dei fatti si rivela squilibrato, in bilico, anche se mai egli oltrepassò il limite che separa l’ortodossia dall’eresia, nonostante fosse stato chiamato a giustificarsi presso l’Inquisizione presieduta dal suo rivale Cardinal Carafa che lo sospetto di essere l’editore di un libro di spiritualità, “Il Beneficio di Cristo”, ritenuto eretico e nato nell’alveo del circolo da lui animato. Pole, in lungo soggiorno viterbese, prima dell’esperienza conciliare, aveva raccolto attorno a sé gli “Spirituali” reduci del circolo napoletano di Juan de Valdés. Si trattava, per lo più, di ecclesiastici di rango che accoglievano alcune delle idee riformatrici ma – attenzione! – senza alcuna volontà di staccarsi da Roma e che, pertanto, premevano per una riforma della Chiesa, della quale senza dubbio si sentiva ovunque la necessità e l’inevitabilità e che infatti, più tardi, intervenne provvidenzialmente con il Tridentino. Nelle intenzioni di questi riformatori napoletani la riforma della Chiesa avrebbe dovuto salvare, sul piano teologico, pochi “fundamentalia fidei” ed operare, sul piano pratico, una “purificazione” che, però, a giudicare dai loro scritti, assomigliava piuttosto ad una radicale svalutazione di riti ed opere esteriori la quale anticipava, in sostanza, tematiche che più tardi furono gianseniste.

Del circolo facevano parte, tra gli altri, il cardinale Giovanni Morone, il protonotario apostolico Pietro Carnesecchi, le gentildonne Vittoria Colonna e Giulia Gonzaga, ed anche il tormentato, ma buon cattolico, Michelangelo Buonarroti (38). Il principale animatore di questo circolo era il teologo mistico spagnolo Juan de Valdés. Costui accoglieva la dottrina luterana della giustificazione per sola fede benché difendesse a spada tratta l’unità della Chiesa di Roma. Il Pole era rimasto influenzato dalla spiritualità valdesiana ed ecco perché, quando il Concilio si accinse a rigettare la tesi della giustificazione per sola fede, egli abbandonò l’aula conciliare per non dover votare a favore di un decreto contrario al fideismo dinsincarnazionista verso il quale, formatosi all’ombra dell’insegnamento spirituale del Valdés, egli occhieggiava, pur senza radicalizzarlo come invece faceva Lutero.

Juan de Valdés, dal quale Reginald Pole fu influenzato, era vicino alle speculazioni, tendenzialmente pelagiane, di Erasmo da Rotterdam ed aveva fatto propria la spiritualità “alumbrada” della sua terra natia. La sua casa in Napoli divenne un circolo letterario e religioso mentre le sue opere – che evidenziavano una chiara influenza di Taulero e della mistica renana – stimolarono in molti il desiderio di una riforma spirituale della Chiesa, senza tuttavia che questo significasse da parte di Valdés e dei suoi una volontà di rottura con Roma. Tra i frequentatori della sua casa si ricordano, fra i tanti, il vicario generale dei francescani Bernardino Ochino e il già ricordato Pietro Martire Vermigli. Secondo la testimonianza di Francesco Alois, condannato come luterano, fra i simpatizzanti di Juan Valdés vi era anche il vescovo di Catania Nicola Maria Caracciolo, il quale infatti, nei suoi testi, mostra una spiritualità vicina agli “alumbrados”.

Secondo Pietro Carnesecchi, che abbiamo incontrato tra i frequentatori del circolo del Pole, Juan de Valdés accettava la dottrina della giustificazione per sola fede ma rifiutava lo scisma luterano. La morte di Valdés disperse la compagnia. Molti dei suoi seguaci, come Ochino, perduta in seguito al corso degli eventi la speranza di riformare il Cattolicesimo dall’interno, lasciarono l’Italia, altri, come Vermigli, invece passarono direttamente al protestantesimo. Juan de Valdés era un profondo erasmiano e come tale era convinto, non senza i tipici accenti di sapore pelagiano presenti anche nel grande Erasmo, del valore dell’uomo e della sua capacità di trovare nel proprio intimo la forza per elevarsi a Dio. Tuttavia, sotto le influenze dell’Alumbradismo e della mistica renana, sviluppò uno spiritualismo fortemente apofatico che considerava nell’uomo l’incapacità d’investigare la sfera divina. Questo conflitto tra un eccesso di catafatismo ed un eccesso di apofatismo è da sempre sintomatico di un qualche squilibrio teologico nei confronti dell’ortodossia di fede. D’altro canto va riconosciuto che Juan de Valdés non professava in senso radicale l’abbandono passivo, quietistico, a Dio.

I problemi di Valdés stavano tutti nell’influsso della ambigua mistica alumbrada che trapela dalla sua teologia. Secondo lo storico Marcellino Menéndez y Pelayo l’“alumbradismo” o “aluminadismo” spagnolo derivava dalle correnti neo-gnostiche umanistiche pervenute in Spagna attraverso influenze italiane. Il movimento fu condannato dall’Inquisizione. Molti seguaci vennero perseguitati in quanto conversos (giudei fintamente convertiti al Cristianesimo) o moriscos (mori fintamente convertiti), altri vennero incarcerati. Altri ancora finirono sul patibolo. L’Alumbradismo aveva radici arabe e giudaiche – in particolare aveva forti connessioni con il cabalismo spurio, più platonizzante che biblico – e si ispirava al quietismo mistico, professava il rifugiarsi in sé stessi, a colloquio con la propria anima, in contatto diretto con Dio attraverso lo Spirito Santo mediante visioni ed esperienze mistiche ma senza mediazioni ecclesiali. Anticipava in molte cose l’attuale ed ambigua spiritualità carismatica, non a caso di provenienza protestante. Il fedele “aluminados” era spinto alla purificazione dell’anima fino al “dejamento”, all’abbandonarsi all’amore e al volere di Dio, il quale salva, nella sua assoluta libertà di giustificazione, senza mediazioni sacramentali o ecclesiali. Quello della diffusione della spiritualità alumbrada in Spagna fu un problema di non poco conto e molto complesso a causa della evidente difficoltà che sussisteva nel distinguere tra posizioni mistiche autenticamente in linea con la Rivelazione e posizioni influenzate da questo “illuminismo”. Se si pensa che anche santa Teresa d’Avila e san Giovanni della Croce furono inizialmente sospettati di alumbradismo si può comprendere l’intricata matassa che l’Inquisizione fu chiamata a districare.

In Juan de Valdés, come abbiamo detto, molte posizioni possono essere ricondotte a quelle dell’“umanesimo cristiano”, che ebbe proprio in Erasmo da Rotterdam l’esponente maggiore. L’Umanesimo cristiano era quella particolare corrente umanista, diffusa nel XVI secolo soprattutto in Francia, Fiandre e Germania, che intendeva conciliare i principi base dell’Umanesimo “laicista”, per usare un termine di immediata comprensibilità attuale, con il Cristianesimo. In tal senso questa corrente metteva l’uomo al centro della Chiesa, quindi valorizzava il rapporto personale e individuale con Dio, inoltre favoriva lo studio filologico dei testi sacri, al fine di ricavare la lezione originale di tali testi, non condizionata da traduzioni o da adeguamenti. In questo nulla vi era di contrario alla fede e tuttavia lo squilibrio teologico che troppo spesso colpiva gli umanisti cristiani comportava anche rischi di deragliamento laddove non agisse una forte vigilanza interiore ed esteriore, ossia ecclesiale. Anche nei monasteri si ebbe lo sviluppo di posizioni riconducibili all’umanesimo cristiano.

Il maggiore esponente di questa corrente fu, come detto, Erasmo da Rotterdam: la sua raffinata opera, la sua critica moderata e la sua idea di rinnovamento portarono infatti a una rapida diffusione di questo movimento all’interno della Chiesa, anche in nazioni fortemente conservatrici dal punto di vista religioso. Tuttavia con il tempo, proprio a causa della mancanza di una attenta vigilanza che senza soffocare il buono allontanasse il cattivo (san Paolo: «esaminate tutto, prendete ciò che è buono»), la corrente umanista radicalizzò le posizioni più eterodosse, andando oltre le intenzioni riformatrici ma non distruttrici dello stesso Erasmo, fino a rasentare o scadere nell’eresia. Per questo venne fortemente osteggiata dalle gerarchie ecclesiastiche, soprattutto quando molti umanisti si avvicinarono sempre più alle idee luterane e alcuni di loro finirono per osteggiare apertamente il dogma cristiano nella sua forma apostolica e cattolica. In altri termini gli umanisti cristiani più radicali, con il loro fondamentalismo, impedirono che il buon frutto della riconduzione dell’umanesimo al Cristianesimo, coltivato non senza qualche ambiguità da Erasmo, giungesse a maturazione. A tutto vantaggio del luteranesimo, che solo il Tridentino riuscì a fermare benché al prezzo di un rigetto anche delle posizioni più conciliabili, con il dogma di fede, tra quelle tendenze riformatrici che, benché bisognose di una assoluta purificazione, non era impossibile mantenere in un alveo di ortodossia. Un prezzo che, in quei frangenti, fu del tutto necessario pagare, sicché non si può imputare ai presunti “oltranzisti della Curia romana” alcuna primaria responsabilità nello scisma. Anzi a costoro va riconosciuto il grande merito di aver salvato il dogma della fede, nonostante siano stati costretti a pagare il duro prezzo di porre fine al dialogo anche con le posizioni riformatrici più moderate.

Aprire alla spiritualità spuria, che tra XV e XVI secolo assediava l’ortodossia della fede, senza distinguere e soprattutto senza che da parte dei riformatori ci fosse alcuna vera volontà di riesaminare le loro posizioni più radicali per ritornare nell’Ovile – magari vicino alla sua porta ma sempre dentro il suo recinto – avrebbe significato la catastrofe per la Chiesa. Ma il Signore che sempre veglia sull’Ovile e guida il Suo gregge, perché Ovile e gregge sono solo suoi, non lo ha permesso mentre preparava, con il Tridentino, quella che, con Hubert Jedin il grande storico della Chiesa, possiamo chiamare la vera ed autentica Riforma Cattolica.

A proposito della quale ci piace, concludendo, riportare per intero questo giudizio apparso sul numero 3562 del 1998, alle pagine 356 – 357, della nota rivista “La Civiltà Cattolica”  perché – a parte un ingeneroso appunto a Carlo V (in realtà, in quei frangenti, lasciato solo e senza consiglio da parte di Papi ancora indecisi sulla convocazione di un Concilio, che invece l’imperatore chiedeva da tempo con accorati e filiali appelli ai vari pontefici che nel frattempo andavano avvicendandosi sul Soglio di Pietro) – si tratta di un piccolo saggio davvero ampiamente descrittivo dell’opera della Provvidenza nel XVI secolo: «Nel cinquecento la Chiesa ha visto il trionfo del paganesimo rinascimentale, il dilagare della corruzione, giunta con Alessandro VI fino al soglio pontificio, un’incredibile ignoranza del clero, l’abbandono delle sedi vescovili, le pratiche simoniache, la scissione della cristianità occidentale a causa delle Riforme luterana e calvinista, il sacco di Roma, la minaccia dell’invasione turca. Sembrava che sotto tanti colpi la Chiesa dovesse crollare, tanto più che Carlo V, il difensore ufficiale del cattolicesimo si alleava con i principi protestanti, i quali si impadronivano della maggior parte delle regioni settentrionali dell’Europa, e Francesco I, re di Francia, si alleava con Solimano, il nemico della cristianità. Eppure, forse in nessun secolo della sua storia come nel Cinquecento la Chiesa diede segni più forti di vitalità. E’ straordinario il numero dei santi canonizzati vissuti nel Cinquecento. Eccone alcuni: Girolamo Emiliani, Antonio Maria Zaccaria, Ignazio di Loyola, Carlo Borromeo, Gaetano da Thiene, Giuseppe Calasanzio, Filippo Neri, Francesco Saverio, Pietro Canisio, Francesco Borgia, Giovanni di Dio, Francesco Caracciolo, Giovanni Leopardi, Andrea Avellino, Pietro di Alcantara, Tommaso da Villanova, Tommaso Moro, Giovanni Fisher, Pio V, Stanislao Kostka, Luigi Gonzaga, Pasquale Baylon, Camillo de Lellis, Lorenzo da Brindisi, Turibio di Mongrovejo, Giovanni della Croce, Francesco Solano, Roberto Bellarmino, Angela Merici, Teresa di Gesù, Maria Maddalena de’ Pazzi, ecc.. E’ un elenco impressionante, anche se incompleto: si tratta, nella maggior parte dei casi, di giganti della santità cristiana, della carità, della mistica e dell’apostolato cattolico. Non è tutto. Nel Cinquecento fu celebrato il concilio di Trento il quale, da una parte, mise in chiaro la dottrina cattolica e, dall’altro, pose le basi per la riforma della vita cristiana; furono fondati molti ordini religiosi (teatini, scolopi, barnabiti, cappuccini, gesuiti, fatebenefratelli, camilliani, carmelitani scalzi, ecc.), che costituirono una delle forze ecclesiali più vive e attive; vennero aperte al Vangelo l’Asia, l’Africa e l’America Latina; fu definitivamente respinta la minaccia turca con la vittoria di Lepanto; si riuscì a fermare la diffusione del protestantesimo nel sud dell’Europa e a riconquistare in parte il terreno perduto con la riforma luterana. Lo storico che si pone di fronte a questi fatti non può non essere sorpreso dalla capacità della Chiesa di riprendersi da pesanti sconfitte e di rinnovarsi continuamente; ma la sua sorpresa crescerà, se rifletterà che non soltanto essa è stata ed è combattuta da forze esterne ad essa assai superiori, ma è debole interiormente. Certo, se la Chiesa fosse stata e fosse forte e vigorosa e potesse quindi combattere con i suoi avversari ad armi pari, la sua sopravvivenza potrebbe spiegarsi; ma sfortunatamente la Chiesa è debole e divisa; ci sono in essa mediocrità, debolezze, peccati; c’è spesso mancanza di intelligenza dei problemi, di strategie adeguate, di iniziativa e di coraggio. In realtà, i colpi più duri si sono abbattuti sulla Chiesa non dal di fuori, ma dall’interno, per opera dei suoi stessi figli: per causa loro essa ha versato le lacrime più amare e ha corso i più gravi pericoli per la stessa esistenza. La storia è piena di debolezze e di tradimenti perpetrati dai suoi figli ai suoi danni. Eppure, sottoposta ad attacchi combinati esterni e interni, la Chiesa non è finita, ma ogni volta si è ripresa vigorosamente, mentre i suoi avversari, tanto più forti di essa, sono scomparsi».

Ed è esattamente questo che abbiamo inteso dire affermando, contro tutti gli “apocalittici”, che il Signore veglia sempre  sull’Ovile e guida il Suo gregge perché Ovile e gregge sono solo suoi.  

 

Luigi Copertino

 

 NOTE

33) Dobbiamo constatare, con dispiacere, che, come ha segnalato Sandro Magister, il regnante Pontefice di ritorno dall’Armenia parlando ai giornalisti al suo seguito: «ha tessuto l’elogio di Lutero. Ha detto che era animato dalle migliori intenzioni e che la sua riforma fu “una medicina per la Chiesa”, sorvolando sulle divergenze dogmatiche essenziali». E’ una affermazione effettuata extra cathedra, quindi non attribuibile a Papa Francesco, ossia senza alcun valore magisteriale, ma soltanto alle opinioni personali di Jorge Mario Bergoglio, benché i media, e purtroppo il popolo da essi confuso, non distinguono tra Papa ed il signor Bergoglio. Non è la prima volta che un Papa esprime opinioni personali senza parlare ex cathedra. Esiste persino l’esempio storico di Giovanni XXII che da teologo privato professava l’eretica tesi della pre-esistenza delle anime, mutuata sic et simpliciter da Platone. Pertanto non possiamo avvallare incondizionatamente la tesi di Antonio Socci, noto per la sue posizioni fortemente critiche verso l’attuale pontificato, su Libero del 16 ottobre 2016, per la quale, a proposito delle parole e dei gesti di Papa Francesco nella questione di Lutero: «Non c’è spiegazione. Tranne quella che già Paolo VI aveva intravisto, parlandone con Jean Guitton: “all’interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non cattolico, e può avvenire che questo pensiero non cattolico all’interno del cattolicesimo diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa”. Paolo VI non poteva immaginare che quel “pensiero non cattolico” potesse arrivare addirittura al vertice della Chiesa. Dove è stato spinto da forti correnti teologiche e clericali interne. Ma ci sono anche gruppi di potere esterni alla Chiesa che da decenni caldeggiano la conversione del Vaticano all’ideologia “politically correct”. Proprio in questi giorni da Wikileaks scopriamo che importanti personalità del mondo democratico Usa (al potere con Obama e Clinton) discutevano nel 2012 di come “piantare i semi di una rivoluzione” dentro la Chiesa, ovviamente per sostenere i soliti temi “progressisti” (…). L’anno dopo, nel 2013, nella Chiesa si ha l’enigmatica rinuncia di Benedetto XVI – combattuto da tutti i media e i poteri del mondo – e l’arrivo di Bergoglio, osannato da tutti i media e i poteri laicisti». Non avvalliamo sic et simpliciter questa tesi sia perché i tentativi dei poteri mondani, un tempo erano quelli monarchici, di infiltrare e condizionare la Chiesa non sono cose di oggi ma di sempre, e non hanno mai avuto successo duraturo, e sia perché partiamo dalla convinzione che la Chiesa non è guidata in primo luogo dai Papi ma da Cristo il Quale, come ricordava tra gli altri anche san Filippo Neri, alcuni Papi li vuole direttamente Lui, altri li consente, altri ancora li tollera ma mai a nessuno permetterà di condurre la Chiesa fuori strada.

34) Massimo Borghesi “Lutero. Agostino e gli ebrei”, in “3oGiorni nella Chiesa e nel mondo”, n. 2, anno 2001. In questo prezioso e puntuale intervento, Borghesi ha dimostrato che, a differenza del vecchio antigiudaismo teologico cattolico, frutto di una esegesi parzialmente impropria della paolina teologia della sostituzione, l’antigiudaismo di Lutero deriva, carsicamente, dall’antica eresia marcionita. Nei primis secoli, infatti, Marcione, per togliere alla fede cristiana la sua radice ebraica allo scopo di farne una gnosi platonica, avanzò una teologia fondata sulla contrapposizione, appunto di radice valentiniana, tra il Dio veterotestamentario, altro presunto nome del platonico “demiurgo” responsabile dell’imprigionamento dello spirito nell’oscurità della materia, ed il Dio-Padre di Gesù, Dio Super-essenziale, indifferenziato Amore/Unità, che sarebbe il vero Dio. In tal modo Marcione negava l’identità tra il Dio del Vecchio Testamento, il Dio della Rivelazione abramitica, ed il Dio cristiano del Nuovo Testamento. Su questa strada, una strada gnostica, si posero le premesse antiche dell’antisemitismo moderno con basi razziali. Non a caso mentre la Chiesa cattolica, anche forte della “Mit Brenneder sorge” (di Pio XI ma scritta da Michael von Faulhaber, l’arcivescovo di Monaco-Frisinga che ordinò sacerdote Joseph Ratzinger, e dal cardinale, all’epoca segretario di Stato, Eugenio Pacelli, il futuro Pio XII) reagì al nazismo (Von Galen, l’arcivescovo di Munster che si oppose pubblicamente all’eugenetica nazista, per dire solo un nome), la confederazione delle chiese luterane, coerentemente con l’approccio luterano favorevole alla sottomissione al Principe, aderì in massa all’hitlerismo, fino al caso radicale dei “cristiano-tedeschi” che supportavano le idiozie naziste sul Cristo ariano (le quali, poi, paradossalmente riprendevano la infamante leggenda talmudica di Gesù figlio adulterino di un legionario romano). Né la minoritaria “chiesa confessante” o figure solitarie come Dietrich Bonhoeffer consentono di smentire il collegamento storico tra luteranesimo e nazionalismo germanico. Tutte queste cose non possono non contare in un giudizio su Lutero e se si deve “far pace” con i protestanti non è possibile scendere noi cattolici sulle loro posizioni ma sollecitare essi a fare i conti con la loro eredità (noi cattolici abbiamo già chiesto, e fin troppo, scusa per le nostre, vere o presunte, colpe).

35) Sui gravi problemi psicologici che furono alla base della squilibrata teologia di Lutero ci informa Roberto Coggi o.p. a p. 66 del suo “Ripensando Lutero”, edizioni Studio Domenicano, Bologna, 2004, ora anche in “La Riforma protestante”, Volume II, ESD, 2004: «Il teologo luterano Gerhard Ebeling – scrive Coggi – riporta il seguente giudizio di E. Grossmann sulla costituzione e il temperamento di Lutero: “Lutero appare una personalità prevalentemente ciclotimica, di costituzione picnica e di una scala alternante nell’umore tra gli stadi iper e ipotimici, combinata in pari tempo con una disposizione stenica degli impulsi”. Questo referto medico, per chi sa leggerlo, è notevolmente preoccupante. La ciclotimia, chiamata anche psicosi maniaco-depressiva, è una malattia mentale per cui il soggetto alterna periodi di profonda depressione a periodi di euforia. La costituzione picnica, poi, è caratterizzata, fra l’altro, da una tendenza sessuale particolarmente accentuata. Un soggetto di questo tipo, dunque, tutto sommato, difficilmente potrà attendersi una vita tranquilla e serena. A ciò va aggiunta, nel caso di Lutero, un’educazione notevolmente rigida e severa, fondata più sul timore che sull’amore, per cui nel giovane Lutero si determina uno stato di accentuata scrupolosità, e si radica in maniera ossessiva il terrore dell’inferno. Il problema della salvezza eterna, il problema di come sottrarsi all’ira di Dio, di come rendersi propizio Dio, diviene del tutto predominante in lui».

36) Oggi si afferma, con troppa facilità e superficialità, che la teologia della sostituzione fosse in sé errata. Non siamo affatto convinti di questa tesi dato che detta teologia – per la quale il momentaneo indurimento del cuore degli israeliti è funzionale, nel piano di salvezza, all’ingresso dei gentili per mezzo di Gesù Cristo, Dio-Uomo, nell’Alleanza di Abramo, sicché essi, i gentili, sono stati innestati al posto degli israeliti nell’Olivo Santo ossia nella Rivelazione trasmessa dall’Israele Teologale, quello vero e non quello etnico, che ha trovato, ora, nella Chiesa apostolica la sua continuazione e forma definitiva – ha un fondamento chiaramente a saldamente biblico. Esattamente laddove, nella Lettera ai Romani, 9 e 10, l’apostolo Paolo invita i cristiani provenienti dal paganesimo a non inorgoglirsi nei confronti degli ebrei ed a trattarli con misericordia ricordando loro che gli israeliti sono stati recisi dall’Olivo Santo, che come si è detto è l’Israele Teologale ovvero la Chiesa del Vecchio e Nuovo Testamento, solo momentaneamente fino alla fine dei tempi onde permettere l’innesto dei gentili e che al termine dei secoli anche gli ebrei rientreranno nell’Unico Ovile del Signore. L’invito di Paolo alla misericordia, purtroppo, deve essere detto e riconosciuto, non sempre è stato ascoltato dai cristiani (anche se in molte occasioni è stato invece accolto dagli stessi, quelli di cuore più aperto), motivo per il quale abbiamo parlato di “non ben compresa teologia della sostituzione”.

37) W. Kasper “Martin Lutero. Una prospettiva ecumenica”, Queriniana, Brescia, 2016.

38) Michelangelo Buonarroti era uno spirito molto religioso e, anche per via della sua giovanile esperienza fiorentina ai tempi del Savonarola, fortemente tormentato dalla debolezza della natura umana troppo incline al peccato. Questo, senza dubbio, lo esponeva, come molti al suo tempo, ad un eccesso di pessimismo antropologico che, però, definire, come pure è stato fatto, cripto-luterano è falso ed errato oltre che storicamente fuorviante. La sua vicinanza agli “Spirituali” di Reginald Pole era mossa dall’esigenza fortemente avvertita da Michelangelo, come tanti altri all’epoca, di una riforma della Chiesa che ne valorizzasse maggiormente la spiritualità rispetto alla istituzionalità. Ma – sia detto con fermezza e chiarezza – gli stessi “Spirituali”, benché con un approccio non perfettamente equilibrato, non hanno mai messo in dubbio la corporeità della Chiesa e, nonostante fossero alla ricerca di una pietà e di una spiritualità maggiormente dirette nel rapporto tra il singolo fedele ed il Signore, non hanno mai contestato la mediazione della Chiesa intesa proprio come Corpo Mistico di Cristo, all’interno della quale quel ricercato rapporto più diretto doveva, per loro, aver luogo. Ecco perché farne dei cripto-luterani è falso e tendenzioso. Anche perché quando essi parlavano della salvezza mediante la fede non intendevano affatto negare che la fede aprisse all’azione della Grazia trasformatrice del cuore umano. Per essi, a differenza di Lutero, e nonostante ogni possibile squilibrio, nella loro teologia, nell’et-et dell’ortodossia cattolica, la fede non era inerte e la Grazia non era un decreto esteriore, come per Lutero, né essi sostenevano un quietismo assoluto o un apofatismo radicale. Si limitavano a proporre, non senza “ombre”, un nuovo approccio al tradizionale primato della Grazia che, sebbene come detto non fosse esente da qualche perplessità, in realtà era diverso da quello luterano. Senza dubbio, lo si è detto, su di essi caddero i sospetti della santa inquisizione, che del resto, è bene ricordarlo, in quei frangenti, nei quali la Chiesa era assediata da forze contrarie interne ed esterne, caddero anche su campioni di santità come Santa Teresa d’Avila e San Giovanni della Croce, prima che tutto per loro si chiarisse. Purtroppo, i sospetti inquisitoriali, nel caso degli “Spirituali”, non facilitarono il chiarimento teologico e diversi tra essi cedettero al radicalismo passando da un imperfetto equilibrio al totale squilibrio che li portò direttamente all’eresia. Perseguitati dall’Inquisizione costoro finirono per trasbordare verso il luteranesimo. Questo, però, non consente di sostenere che tale esito fosse già inevitabilmente iscritto nel loro percorso spirituale. Che la spiritualità degli “Spirituali”, nonostante alcune ombre, non fosse in fondo luterana è dimostrato proprio dall’iconografia artistica di Michelangelo incentrata fortemente sulla esaltazione del corpo umano quale Immagine del corpo stesso di Cristo. Una esaltazione che non sarebbe pensabile in una prospettiva teologica di tipo anti-carnale come quella luterana o simile. Né si può dire che in quell’esaltazione ci fosse una affermazione dell’antropocentrismo rinascimentale perché per Michelangelo il corpo umano è modellato sul Verbo che si incarna e non su una base naturalistica. E’ vero che, nella polemica tra Gian Pietro Carafa ed il Pole, l’arte di Michelangelo fu accusata di immoralità e nel clima di un certo integralismo a latere del Tridentino, ma che tridentino non era (un po’ come certo tradizionalismo rigorista di oggi), i nudi del Giudizio Universale della Cappella Sistina furono ricoperti dai cosiddetti “braghettoni”, ma questo non significa che Michelangelo non fosse interno all’ortodossia cattolica, quanto piuttosto che i suoi detrattori erano inconsapevolmente influenzati da un certo rigorismo luterano. C’è poi un altro elemento che testimonia dell’assoluta cattolicità di Michelangelo e che non si spiegherebbe se l’artista fosse stato un semi-luterano: parliamo della totale devozione di Michelangelo alla Madonna manifestata pienamente nelle sue opere maggiori come la Pietà e il Giudizio Universale. Michelangelo come il Pole, a differenza di altri membri degli “Spirituali”, restò sempre cattolico nonostante gli eventi successivi sembrassero andare contro le sue speranze di riforma della Chiesa. Ma l’artista, morto nel 1564, non ebbe modo e tempo di vedere i frutti della vera Riforma Cattolica inaugurata dal Tridentino, che si concluse solo l’anno prima della scomparsa di Michelangelo. Protetto da Paolo III – che fu anche il protettore del cardinal Pole – il grande toscano restò l’artista, come dire, “ufficiale” della Curia romana anche quando, salito al soglio pontificio Paolo IV Carafa, gli fu tolto l’assegno mensile di cui godeva ma non gli incarichi ad iniziare dal completamento della costruzione della basilica di San Pietro in Vaticano. Ecco perché riteniamo errata la tesi, di recente avanzata, da due storici dell’arte, intesa a fare di Michelangelo un cripto-luterano che non ebbe mai il coraggio di svelare la sua nuova fede mentre i suoi vecchi amici “Spirituali” venivano perseguitati dall’Inquisizione. E’ la tesi di Antonio Forcellini e di Christof L. Frommel, cui, nel giorno di Natale del 2016, il canale pubblico Rai Storia ha dedicato un ampio documentario, nella serie “aC.dC.”, dai toni fortemente faziosi. Detto documentario ha dipinto una incompleta scena storica secondo la quale sia gli “Spirituali” sia, soprattutto, Michelangelo sarebbero stati in “segreta”, “carbonara”, lotta contro (così, letteralmente, si è espresso il narratore televisivo) la “superstizione cattolica” e nella quale l’avversione del grande inquisitore cardinal Carafa, futuro Paolo IV, sarebbe stata motivata soltanto dalla difesa degli interessi finanziari e patrimoniali del settore più conservatore della Chiesa, egemone nella Curia romana, e non anche da chiare, evidenti e fondamentali ragioni teologiche, benché purtroppo, in quella congerie, non disgiunte, fino al successivo chiarimento tridentino, dalla convergenza con interessi lobbistici come, appunto, quelli degli esattori fiscali delle indulgenze ecclesiastiche. Gian Pietro Carafa se, all’interno della Curia romana, certo rappresentava la fazione conservatrice nello scontro con la fazione più aperta del Pole – una dicotomia, questa, conservatori/riformatori, che senza aver mai dissolto l’unità ecclesiale, da sempre è presente all’interno alla Chiesa, sin dalle polemiche nel primo Concilio di Gerusalemme tra “giudaizzanti” ed “ellenizzanti”, e quindi non generata, come pensano oggi alcuni “tradizionalisti”, dal Vaticano II – non era un losco affarista ma un uomo al quale stava, benché maldestramente per certi aspetti, a cuore il Depositum Fidei, come del resto stava a cuore allo stesso Reginald Pole. Carafa era membro dell’ordine del Divino Amore, incoraggiò Gaetano Thiene nella fondazione dell’ordine dei Chierici regolari teatini, che prendeva il nome dall’antica denominazione, “Teate”, della città di Chieti dove il Carafa era stato arcivescovo, ed appoggiò i tentativi di Paolo III per la riforma curiale – il fatto che, salito al soglio pontificio, ne assunse il nome stava a sottolineare una continuazione nella volontà riformatrice – partecipando, insieme al Pole, alla commissione che produsse il “Consilium de Emendanda Ecclesia”, vero e proprio programma riformatore, ed alla commissione che ebbe l’incarico di preparare il futuro Concilio tridentino. Quindi fare di Carafa un “corvo reazionario” è alquanto fazioso benché egli chiese ed ottenne l’istituzione dell’Inquisizione romana della quale, da Papa, ampliò i poteri e che usò in modo capillare e fin troppo ossessivo nella lotta antiereticale. Ora, però, non si può giudicare il Carafa, per questo, senza tener conto del clima nel quale si dibatteva la Chiesa del tempo, la quale si sentiva minacciata ad intra ed ad extra, e che certo rendeva difficile qualsiasi tentativo di mediazione e di distinzione tra posizioni le quali per quanto innovatrici restavano in un alveo di ortodossia e posizioni effettivamente eretiche o ereticali. Allo stesso modo non si può comprendere, senza riferimento al contesto storico del momento, la decisione del Carafa di istituzionalizzare in ghetto il già esistente quartiere ebraico imponendo agli ebrei limitazioni e gravose prescrizioni, abbandonando in tal modo la tradizionale politica di tolleranza dei Papi verso gli ebrei romani. Da inquisitore Carafa si era accorto che molta della spiritualità spuria, serpeggiante tra gli eterodossi cristiani, aveva le sue fonti nella ambigua mistica ebraica, del resto sospetta alla stessa ortodossia rabbinica. Da qui la sua avversione, che era esclusivamente teologica (non certo razziale!), verso gli ebrei. Né Carafa era, come è stato affermato nel documentario televisivo al quale si faceva cenno pocanzi, un uomo del medioevo in contrasto con un uomo moderno quale il Pole. Entrambi erano uomini di Chiesa e come tali devono essere immediatamente giudicati tenendo conto che il loro contrasto nasceva non da presunte appartenenze epocali ma da un diverso approccio alla medesima fede, sicché né l’uno né l’altro erano fuori dell’ortodossia cattolica. Al fine di supportare la loro tesi di un Michelangelo cripto-luterano, per mediazione degli “Spirituali”, Forcellini e Frommel hanno avanzato l’ipotesi che la tomba di Giulio II, scolpita dall’artista, ed il famoso Mosé michelangiolesco siano la “segreta” testimonianza dell’eresia, la teologia luterana, professata nascostamente dal grande toscano, il quale si sarebbe divertito, in odio al potere papale romano, a porre proprio all’interno della basilica di San Pietro una monumentale confessione di fede protestante. Non sappiamo se Forcellini e Frommel siano protestanti (l’inglese probabilmente sì) ma sta di certo che sostenere che Michelangelo avrebbe voltato lo sguardo del Mosé lontano dall’altare centrale, verso il quale il progetto originario prevedeva fosse orientato, come per dire che il profeta guardava lontano dalle “superstizioni cattoliche”, o sostenere che le “corna” del Mosé – che sappiamo benissimo essere la resa scultorea dei fasci di Luce Gloriosa (l’aureola dell’iconografia tradizionale dei santi) che qualunque autentica esperienza mistica, come fu quella del Sinai, lascia sempre trasparire dal volto del mistico, mediante il veicolo psichico dell’aura – siano un simbolo della ricerca di un rapporto diretto, senza mediazioni ecclesiali, tra l’uomo e Dio significa non essere affatto coscienti né di cosa è il Cattolicesimo né della fenomenologia mistica, che era ben nota ai tempi di Michelangelo anche a livello popolare. Ora, pur ammettendo che Michelangelo fosse ossessionato dal “tormento e l’estasi”, per dirla con il titolo del vecchio film di Carol Reed, interpretato da Charlton Heston e Rex Harrison, tratto dall’omonimo romanzo di Irving Stone, non è possibile, sulla base di documenti che testimoniano appunto solo del tormento e dell’estasi, appropriarsi di Michelangelo per sottrarlo alla cattolicità e attribuirlo al campo protestante. Un’operazione molto fragile, non priva di faziosità apologetica filo-protestante, che ha il sapore dell’analoga fantasiosa operazione di Dan Brown sul Cenacolo di Leonardo. Noi preferiamo restare alla storia ed alla teologia. La fanta-storia, con i suoi “segreti” ed i suoi “complotti”, e la fanta-teologia la lasciamo ad altri.