CENTRO-DESTRA: REQUIEM PER L’UNIONE DEI MODERATI

Michele Rallo

Centro-destra: dove eravamo rimasti? Ah, si, ai risultati delle amministrative “col botto”; anche se l’eco dei ballottaggi italiani era rapidamente svanita sotto l’onda d’urto del Brexit e dell’orgia di commenti (spesso ridicoli) che ne era seguìta.

Eppure, a ben guardare, sia le amministrative italiane che il referendum inglese (per tacere delle presidenziali austriache, annullate per palesi irregolarità) hanno dato – per quanto attiene al nostro “fronte interno” – una duplice, precisa indicazione. Evidente il suo primo aspetto, quello che riguarda il bulletto fiorentino: un avviso di sfratto.

Ma – a ben guardare – è altrettanto chiaro anche il secondo segnale: un De profundis per la “unione dei moderati” vagheggiata da un Berlusconi rimasto politicamente al 1994. Quanto diversa sia la realtà italiana ed europea del 2016 è chiaro a tutti. E non tanto per le dinamiche nazionali (la “seconda repubblica” si è rivelata assai peggiore della prima), quanto per il quadro generale, segnato in modo irreversibile dalla degenerazione antipopolare delle istituzioni dell’UE e da un’invasione migratoria che, nei piani di chi l’ha progettata, dovrebbe condurre alla fine degli Stati nazionali ed al completo imbastardimento (etnico e culturale) delle popolazioni europee.

Dal ’94 ad oggi, però, è andata prendendo corpo una forte resistenza popolare che – data la latitanza di una sinistra in larga parte aggiogata al carro dei poteri forti – si è identificata nelle posizioni politiche delle destre nazionali e popolari dei vari paesi europei, quelle che i nostri telegiornali definiscono sprezzantemente “estrema destra” o, nella migliore delle ipotesi, “populismi”.

In Italia – essendo stata la nostra destra nazionale liquidata da un certo personaggio – si è dovuto ripartire da zero: mentre Giorgia Meloni riportava sulla retta via i Fratelli d’Italia, Matteo Salvini depadanizzava la vecchia Lega Nord, azzoppata dalla gestione bossiana, e la rilanciava come punta di diamante del movimento anti-immigrazionista. Uniti, i due movimenti fanno già oggi una forza oscillante fra il 15 e il 20 per cento, embrione di un futuro Fronte Nazionale italiano che sarebbe naturalmente l’elemento dominante di un centro-destra dalle forti tinte anti-sistema.

Naturalmente, una soluzione del genere non sta bene a certi ambienti (di Bruxelles e di Washington) che “consigliano” il Cavaliere e che vedono il populismo anti-UE ed anti-immigrazione come il fumo negli occhi. Secondo questi ambienti, il contesto politico ideale di un qualunque paese europeo dovrebbe essere il seguente: due grandi contenitori di centro-destra e centro-sinistra assolutamente fungibili e parimenti “moderati” (democristiani e socialdemocratici, conservatori e laburisti, gollisti e pseudo-socialisti, etc), adatti per un’ordinata alternanza o per governare insieme (modello Monti); una limitata opposizione di cosiddetta estrema sinistra, del tutto snaturata e convertita al bon ton antipopolare (modello Tsipras) o comunque disponibile a restare nell’UE “per cambiarla dal di dentro” (modello Podemos); e una destra nazionalista e populista tenuta fuori dal parlamento, magari con un’oculata legge elettorale liberticida.

Per questi ambienti, è vitale che il centro-destra italiano continui ad essere quello che è stato fin’ora: depotenziato e berlusconizzato, disposto a votare per la Presidenza della Repubblica uno come Napolitano,  ad appoggiare un governo “tecnico” guidato da uno come Monti, e pronto anche al più ignobile tradimento per liquidare chi ci era amico (Gheddafi) e per gettare la Libia nelle braccia dell’ISIS. Questo è il modello di “destra” che vogliono i poteri forti, esattamente come il modello di “sinistra” prediletto è quello di uno Tsipras che salta il fosso e passa agli ordini della Troika.

Le grandi manovre per le amministrative italiane sono state un momento di questa operazione, con la congiura per impedire a Giorgia Meloni di giungere al ballottaggio e probabilmente di vincere nel confronto finale con la Raggi (ne ho parlato su “Social” del 6 maggio scorso).

Specularmente, il Cavaliere-senza-cavallo ha costruito la candidatura milanese “moderata” del burocrate Stefano Parisi, negazione vivente di una destra radicale, militante, sovranista e populista. E non solo il Disarcionato ha imposto quella candidatura agli alleati “storici” (Lega e Fratelli d’Italia), ma ha anche raccolto l’adesione di altri “moderati” estranei al centro-destra, compresi quelli di un NCD che è al governo con Renzi. Il piano, sulla carta, era assolutamente vincente: un candidato politicamente incolore, sostenuto da un arco di forze vastissimo, con la destra-destra all’angolo e costretta a bere l’amaro calice (la Lega era in difficoltà per gli scandali che avevano coinvolto alcuni consiglieri legati al vecchio ambiente pre-Salvaini), con una città relativamente al riparo dalla crisi economica – la “Milano da bere” – e con gli ambienti berlusconiani in grande spolvero. Ma neanche con tutti gli aiuti di questo mondo il mesto Parisi ce l’ha fatta, fermandosi al 48% nel ballottaggio con il gemello-rivale Sala. Unica vittoria dei renziani nei ballottaggi più importanti, quasi che gli elettori milanesi avessero preferito punire un centro-destra arcaico piuttosto che i rappresentanti meneghini del Vispo Tereso.

Nonostante ciò, certe vecchie mummie hanno avuto il coraggio di insistere su un “modello Milano” per il centro-destra, asserendo che – si – Parisi non aveva vinto, ma solamente per poco. I più sbadati continuavano a ripetere lo slogan “uniti si vince”, dimenticando il piccolo particolare che a Milano si era perso.

A riprova della teoria che a vincere poteva essere soltanto un centro-destra a trazione moderata, i campioni di arrampicata sugli specchi commentavano con condiscendenza i risultati del ballottaggio di Bologna, dove una candidata voluta da Lega e Fratelli d’Italia – Lucia Borgonzoni – aveva portato il centro-destra “solo” al 45%.

Eppure – non se n’è accorto nessuno – la prova provata del fallimento definitivo dell’unione dei moderati sta proprio nel raffronto dei risultati di Milano e Bologna: il 48% del moderato Sala nella “capitale morale” del centro-destra, e il 45% dell’attivista Borgonzoni nella città più rossa d’Italia. Aritmeticamente, c’è una differenza del 3% in favore del candidato gradito al coacervo berlusconiano-centrista della Milano azzurra. Nella sostanza, invece, la candidata “lepenista” della Bologna rossa ha ottenuto un risultato che – rapportato nelle debite proporzioni anche al resto d’Italia – dimostra che è vincente solo un centro-destra a trazione populista. Il perché è evidente: la grande sacca degli elettori moderati (senza virgolette) non è più disposta a seguire i politici “moderati” (con le virgolette). Piaccia o non piaccia ai Verdini, agli Alfano, ai Confalonieri, l’elettorato moderato non gradisce essere sacrificato sull’altare dei “mercati” e del politicamente corretto.

Il “modello Milano” è già stato cestinato. Con grande soddisfazione dei moderati veri.