Anche un sacerdote ha dubbi sulla Bibbia CEI

(MB) – L’autore, padre Giovanni Scalese, un barnabita, mi è doppiamente caro: perché mostra la libertà di spirito del vero cattolico nell’esprimere la sua critica alle versioni “concordate” dei testi sacri, e perché vive attualmente a Kabul. E’ il cappellano della piccola chiesa che stà dentro l’ambasciata italiana, unico luogo in tutto l’Afghanistan dove si consacra la Presenza Reale, e dove potei ricevere la Comunione circa 15 anni fà….   E’ il privilegio che chiese il regime fascista quando il re afghano volle ringraziarlo perché l’Italia era stata la prima nazione civile a riconoscere l’Afghanistan. “Cosa possiamo fare per voi?”, fu la domanda. “Lasciate che il nostro personale d’ambasciata possa professare la sua fede”, fu la risposta. La domanda fu accolta adddirittura  con commozione dal re afghano: ecco, un popolo occidentale che non è ateo ma credente…Altro Islam, altri tempi. Altra Italia.

Ed ora, l’articolo di padre Scalese, dal suo blog “Senza peli sulla lingua”:

 

 

La nuova traduzione della CEI

Col passare del tempo, si riesce a conoscere meglio la nuova traduzione CEI della Bibbia (2008) e quindi ad apprezzarne i pregi e a scoprirne i difetti.

 

Domenica scorsa, per esempio, nella parabola del ricco “epulone”, ho notato con piacere lo sforzo di tradurre piú letteralmente la frase «ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe» (Lc 16:21), nonostante che tale traduzione renda piú difficile la comprensione del testo rispetto al precedente «perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe». Non ho capito invece perché si sia abbandonata la vecchia traduzione letterale «fu portato dagli angeli nel seno di Abramo» (16:22), per sostituirla con «fu portato dagli angeli accanto ad Abramo». Se il criterio è quello della fedeltà al testo originale, si poteva conservare la vecchia traduzione. Capisco che già precedentemente era stata usata la traduzione piú libera nel versetto successivo (16:23), creando in tal modo una disomogeneità; ma per lo meno in uno dei due passi era stata conservata l’espressione originale, che ora invece è scomparsa del tutto. Il problema è che, con queste traduzioni “a senso” si rischia di non cogliere i riferimenti ad altri passi dove viene usata la medesima espressione: si parla di “seno” infatti anche in Gv 1:18 (il Figlio unigenito che «è nel seno del Padre») e in Gv 13:23 (il discepolo che Gesú amava «era coricato sul seno di Gesú»).

 

Un’altra tendenza che trovo nella nuova traduzione, e che non condivido, è quella di preferire all’interpretazione tradizionale (solitamente basata sulla versione greca dei LXX), la traduzione dal testo masoretico, quasi che questo si identifichi col testo originale della Bibbia, mentre si tratta di una codificazione avvenuta solo in epoca cristiana (al contrario della LXX, che già esisteva al tempo di Gesú). Due esempi tratti dai salmi.

 

L’inizio del Sal 64 (65). La precedente traduzione suonava: «A te si deve lode, o Dio, in Sion» (in latino: «Te decet hymnus, Deus, in Sion»). Ora leggiamo: «Per te il silenzio è lode, o Dio, in Sion»). Non nego che si tratti di una traduzione suggestiva, ma che si fonda esclusivamente sulla lettura masoretica della parola ebraica dmyyh. I masoreti (che aggiunsero le vocali al testo ebraico puramente consonantico) lessero dummiyyah (= “silenzio”), mentre i LXX (precedenti — ripeto — rispetto ai masoreti) lessero dommiyyah (= “conviene”, “si addice”). Le antiche versioni latine tradussero il grecoprepei con decet. Era proprio il caso di abbandonare una tradizione cosí antica per adottare la incertissima e discutibilissima lettura masoretica?

 

Un altro esempio tratto dalla liturgia odierna dei Santi Arcangeli: molti testi liturgici attingono al Sal 137 (138): «A te voglio cantare davanti agli angeli» (in latino: «In conspectu angelorum psallam tibi»). Che cosa troviamo nella nuova traduzione? «Non agli dèi, ma a te voglio cantare». Degli angeli non c’è piú traccia. È vero che nel testo ebraico troviamo ’elohim, che significa appunto “dèi”; ma i LXX avevano tradotto quell’espressione con “angeli”. Avranno avuto i loro motivi. Perché, anche in questo caso, si è preferita un’apparente fedeltà al testo ebraico, abbandonando l’interpretazione tradizionale, non solo cristiana, ma degli ebrei stessi?

 

I traduttori si difendono mettendo avanti l’autorità di San Girolamo. Questi infatti nel primo caso (Sal 64:2) traduce: «Tibi silens laus, Deus, in Sion»; nel secondo (Sal 137:1): «In conspectu deorum cantabo tibi». È vero; ma si dimentica che la Chiesa non ha mai adottato per la sua preghiera il Salterio “iuxta Hebraeos” di San Girolamo, accontentandosi della sua revisione del Salterio “iuxta Septuaginta” (detto anche “Salterio gallicano”). Anzi, direi che tutti i salteri tradotti sul testo ebraico non hanno mai avuto grande fortuna nella Chiesa: basti pensare al salterio commissionato da Pio XII all’Istituto Biblico negli anni Quaranta e che fu utilizzato solo per un breve periodo nella liturgia (nonostante tale traduzione fosse stata condotta sul testo ebraico, nei due casi accennati conservava il testo latino tradizionale).

 

Anche la Neovolgata, che pure ha corretto in molti punti il testo del “Salterio gallicano” (senza con ciò adottare il Salterio ieronimiano “iuxta Hebraeos”), nei due casi presi in esame è rimasta, essa pure, fedele alla traduzione tradizionale: «Te decet hymnus, Deus, in Sion»; «In conspectu angelorum psallam tibi». Ora, chiedo: ma l’istruzioneLiturgiam authenticam (28 marzo 2001) non aveva stabilito che le traduzioni per l’uso liturgico (quale è la nuova versione della CEI), pur condotte sui “testi originali” avrebbero dovuto avere come punto di riferimento la Neovolgata (nn. 34-45)? Come mai è stata concessa alla nuova versione CEI la recognitio, nonostante non sia stato rispettato tale criterio?

 

MERCOLEDÌ 29 SETTEMBRE 2010

 

Ancora sulla Settanta

 

 

Vorrei tornare su un argomento da me toccato alcuni giorni fa nel post su “La nuova traduzione della CEI” (29 settembre 2010). In quel post lamentavo la preferenza data in tale versione (come del resto in tutte le traduzioni moderne della Bibbia) al testo masoretico rispetto alla versione greca dei Settanta.

 

Proprio ieri Avvenire (si veda, nell’archivio storico, a p. 25 del numero del 9 ottobre, l’articolo “Settanta radici ebraiche del cristianesimo”) ha pubblicato una recensione del volume di Natalio Fernández Marcos, Septuaginta. La Bibbia di ebrei e cristiani, Morcelliana. Vi consiglio di leggere questa recensione, perché riassume brevemente la storia delle due tradizioni parallele (quella del testo masoretico e quella dei Settanta), mettendo in chiaro che «le due religioni, l’ebraica e la cristiana, fin dall’inizio si riferirono a due corpi scritturali non identici, diversi nella lingua e parzialmente nella composizione dei testi. La Septuaginta era certamente una Bibbia tradotta da ebrei per gli ebrei di Alessandria che non parlavano piú ebraico bensí greco (tradotta precisamente da chi, è ancora tema di discussione tra gli studiosi), ma con il declinare di quella comunità venne abbandonata proprio mentre, a poco a poco, diventava la Bibbia adottata dalla nuova religione, quella cristiana, e mentre il giudaismo rabbinico fissava il suo canone e la sua versione in ebraico tradizionale, ossia masoretico» (dopo tali premesse, faccio fatica a capire la conclusione dell’autore: «Si devono rispettare ambedue le tradizioni, quella ebraica e quella greca, senza tentare di ridurre o di adattare l’una all’altra»; bisognerà leggersi il volume per intero).

 

Nel discorso pronunciato a Ratisbona il 12 settembre 2006, Benedetto XVI, parlando dell’“ellenizzazione” del cristianesimo, aveva detto a proposito della Settanta:

 

«Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell’Antico Testamento, realizzata in Alessandria — la “Settanta” —, è piú di una semplice (da valutare forse in modo addirittura poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione,nel quale si è realizzato questo incontro [= l’incontro tra la fede biblica e la “parte migliore” del pensiero greco] in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo».

 

Lo stesso Concilio Vaticano II aveva usato un’espressione molto forte a proposito della Settanta:

 

«La Chiesa fin dagli inizi accolse come sua l’antichissima versione greca dell’Antico Testamento detta dei Settanta» (Dei Verbum, n. 22).

 

Dopo tali premesse, non capisco come, quando si tratta di tradurre l’Antico Testamento, ci si senta in dovere di ricorrere al testo masoretico, quasi che questo costituisca il “testo originale”, mentre in realtà si tratta solo di una testimonianza, di una tradizione, alla quale però i primi cristiani hanno preferito un’altra tradizione e l’hanno fatta propria.

 

I risultati di questa tendenza possono dare risultati in qualche caso aberranti. Faccio un esempio. Parlavo nel post del 29 settembre della parola ’elohim, tradotta in alcuni casi dai LXX con “angeli” (anziché col letterale “Dio/dèi”). Ebbene, uno di questi casi è il Salmo 8. Finora la traduzione della CEI, con la LXX, aveva tradotto: «Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato» (vv. 5-6). La nuova traduzione, invece, seguendo il testo ebraico, suona: «Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato».

 

Direte voi: beh, questa nuova traduzione non è poi cosí male (fra l’altro ha anche una certa musicalità); dire che l’uomo è poco meno di un dio, tutto sommato, è giusto. Certo, se noi “contestualizziamo” il salmo nell’ambiente in cui è stato scritto (che forse non era ancora giunto al pieno monoteismo, ma si trovava ancora in una fase “enoteistica”), possiamo dire che l’uomo è poco meno di un dio. Ma dirlo oggi (e, fino a prova contraria, i salmi non sono letti nella Chiesa come testimonianze letterarie del passato, ma come preghiera dei cristiani di oggi) mi suona un po’ male, quasi che noi credessimo nell’esistenza di piú divinità.

 

Ma l’inconveniente maggiore è che, dei salmi, un cristiano dovrebbe dare una lettura cristologica: quell’uomo, di cui parla il Salmo 8, è innanzi tutto l’Uomo per eccellenza, Gesú Cristo. Ma la nuova traduzione mi impedisce di dare tale lettura, perché, se dico che Cristo è poco meno di un dio, dico semplicemente un’eresia (perché lui è Dio); mentre dire che è stato fatto “poco meno degli angeli”, lo posso fare tranquillamente, perché è evidente che mi sto riferendo alla sua umanità. Ed è esattamente ciò che ha fatto la lettera agli Ebrei, che, citando la Settanta, ha applicato a Cristo il passo di quel salmo (2:6-8).

 

Se il Nuovo Testamento, per citare l’Antico, si serviva della Settanta, perché mai noi dobbiamo ricorrere al testo masoretico?

 

DOMENICA 10 OTTOBRE 2010