Al Sisi forse ha ragione sul giovane Regeni

di Giorgio Rapanelli

Al di là delle poco verosimili  giustificazioni delle autorità egiziane, la terribile vicenda di Giulio Regeni è ancora avvolta dalla nebbia. La sua tragica fine “karmica” è impregnata di un odio psicotico, che non fa parte dei comportamenti dei “servizi” normali nei confronti di un “agente nemico”, soprattutto se costui ha la nazionalità di uno Stato in pace e in collaborazione con il Governo da cui dipendono i “servizi” stessi. Nel caso, si imprigiona ufficialmente e si torchia l’”agente nemico” privandolo del sonno, del vitto e dell’acqua, per avere informazioni pure con iniezioni di Pentothal; poi lo si espelle con grande risalto sugli organi di informazione. Magari scambiandolo con un altro “agente” in mano ai “servizi” dello Stato di cui l’espulso ha la cittadinanza.

Quelle operate sul corpo del giovane sono sevizie colme di perfido godimento nel procurarle e volte infine ad uccidere. Siamo  in presenza di uno sgarro, di un tradimento, o di un pericoloso doppio gioco del Regeni, che metteva in pericolo la sopravvivenza del gruppo di cui faceva parte? Oppure, di un tradimento sentimentale con motivazioni sessuali? E’ stato vittima di un rituale sacrificale per soddisfare spietate entità che si nutrono delle emanazioni del dolore e del sangue  delle vittime? I responsabili della morte sono proprio negli ambienti frequentati dal giovane idealista italiano per i suoi studi e le sue ricerche, che lo hanno “venduto”, o “indicato” quale pericolosa spia al regime egiziano?

Infatti, il giovane Regeni frequentava ambienti di opposizione attiva al Regime: un covo di serpenti pullulanti di spie, quinte colonne e agenti provocatori del Regime stesso e di chissà di quali altre “agenzie”. Come normalmente avviene dappertutto.

Forse egli si era “esposto” troppo, coinvolgendosi in un gioco non di sua competenza. Di sicuro,  non aveva ambienti amici e “sicuri” che lo coprivano…

Io stesso mi misi in quelle condizioni alla fine degli anni ’60 nel curare gli interessi politici in Italia del Southern Sudan Liberation Front. Così, nel 1970, rischiai la vita in occasione di un mio safari tra i guerriglieri sud sudanesi, durante il quale fui da essi accusato di essere “spia e mercenario” del Nord Sudan. Come seppi poi, a danneggiarmi era stata la delazione di un universitario sud sudanese del nostro gruppo romano, diventato per denaro informatore dell’ambasciata sudanese. Fu seguendo “la pista del denaro” (follow the money trail) che un controspionaggio mediorientale lo scoprì (impossibile che un universitario sud sudanese spendesse troppo in abiti, auto e bella vita) e informò i dirigenti occulti del gruppo. Mi salvai da una “scomparsa” tra i coccodrilli del fiume Nimur ai confini con l’Uganda, grazie alle foto che mi ritraevano con uno dei capi prestigiosi del Fronte, il defunto maggiore Ferdinand Goi Ukelo, e grazie alla presenza in zona di una missione militare israeliana. Tornato in Uganda, fui “coperto” da ambienti “amici” e  nascosto in un appartamento dell’ambasciata  francese per non essere arrestato dalla polizia ugandese, che mi cercava e che mi avrebbe consegnato ai “servizi” sudanesi – come avvenne in seguito col mercenario Rolf Steiner. Sarei stato massacrato di botte,  processato, giudicato, condannato alla prigione da un tribunale del Sudan e dopo qualche anno rispedito in Italia. Ma MAI “giustiziato” dai nord sudanesi

A commettere l’assassinio del giovane Regeni potrebbero essere  stati “servizi deviati”, autonomi da quelli ufficiali – tipo Banda Koch. Però, in questo caso, mai si sarebbe fatto ritrovare un cadavere in quelle condizioni. Come normalmente avviene per eliminare spie e rompiscatole, basta una revolverata alla nuca, o da una moto in corsa. Invece, un cadavere così seviziato lo si fa “sparire”, riducendolo in cenere o in pezzi, da disperdere in zone desertiche.

Facendo ritrovare quel corpo seviziato, è stato come se si fosse voluto mettere in difficoltà il regime del presidente Abdel Fatah al Sisi nei confronti di un Paese “amico” come l’Italia e a livello internazionale. E’ stato un gioco “interno” degli oppositori al regime, infiltrati nei “servizi”? E’ stata la  volontà  di “agenzie” esterne con l’obiettivo di  minare i rapporti dell’Egitto con l’Italia per via dello sfruttamento di giacimenti di idrocarburi? Comunque sia, Al Sisi ha probabilmente nemici molto vicini a lui. Oltre a quelli “grossi” esterni.

L’Egitto – per la sua credibilità politica internazionale e per evitare che il mondo sia costretto a vedere la foto di come è stato ridotto il giovane italiano – farebbe bene a trovare – e li troverà – i responsabili veri e a punirli, pure qualora facessero parte dei propri “servizi”. Che  magari verrebbero fatti scomparire o tacere per sempre (to eliminate surviving  witnesses) con gli usuali sistemi dell’”agente morto”. Buona norma sarebbe seguire anche una eventuale “pista del denaro”: quello probabilmente pagato  per l’assassinio di Regeni (a criminali comuni, come a volte avviene).

Da parte italiana, si deve prudentemente tenere conto dell’importanza strategica e politica  dell’Egitto (del Canale di Suez, di Israele e di Tobruk), ossia delle frontiere mediterranee   “sicure” per la nostra sopravvivenza e per quella dell’Europa. I ricatti e le smargiassate politiche  nei confronti dell’Egitto ci danneggerebbero… A meno che, con essere, non si stiano facendo interessi di potentati esteri.  Altri argomenti di ordine morale e umano non rappresentano una priorità per chi ha responsabilità politica di governo. Però, Giulio Regeni chiede all’Egitto verità e giustizia, insieme ai suoi straziati genitori e a tutte le persone comuni, che, nel mondo, non possono accettare che una “ragion di Stato” copra una mostruosità simile. Ancora la politica non svela Ustica, la strage di Bologna, il rapimento di Moro. Il “caso Regeni” non dovrebbe nascondere risvolti “inconfessabili” come quelli… Comunque, conviene all’Egitto perdere completamente la faccia per non sacrificare alcuni apprendisti stregoni interni?

Giorgio Rapanelli

 

 

Giorgio Rapanelli, classe 1937,  ha passato decenni in Africa prima come documentarista, e poi  – visti gli orrori, il caos e le violenze seguiti alla de-colonizzazione – come combattente. In Congo, negli anni 1964-66,  ha visto la rivolta dei “Simba” (leoni in swaili), giovanissimi guerriglieri fanatizzati dai loro stregoni, che si abbandonavano ad ad inenarrabili orrori, eccidi, stupri ed atti di cannibalismo. E’ stato parte del 5 Commando, un corpo di contractors – militari veri – inquadrati nella Armée Nationale Congolaise, che debellò l’orrore dei Simba.