L’ULTIMO “RUTTE” DELLA UE MORENTE

L’ULTIMO “RUTTE” DELLA UE MORENTE (da www.domus_europa.eu)

Or dunque nulla di nuovo a Bruxelles. La discussione sul Recovery Fund si è impantanata nella solita tenzone tra i Paesi nordici e quelli mediterranei. A guidare i primi questa volta non Angela Merkel, tenuta ad un atteggiamento di apparente equidistanza dato che la Germania in questo momento esprime nella sua cancelliera la presidenza semestrale dell’Unione, ma dal premier olandese Rutte. Quest’ultimo ha riproposto la linea del rigore nordico contro il “lassismo” degli euromediterranei, vecchia questione con profonde implicazioni teologiche e storiche dietro le quali si cela l’atavica avversione protestante contro Roma. Perché è evidente che il Nord Europa identifica il presunto lassismo mediterraneo con i “vizi cattolici” che i riformatori cinquecenteschi hanno attribuito alla Chiesa romana.

Rutte – come puntualmente accade a tutti i moralisti paladini del rigore che nascondono i propri vizi – non ha fatto il minimo cenno alla concorrenza sleale che Olanda ed altri Paesi nordici attivano ai danni dei partner europei in termini di dumping fiscale, avendo trasformato i rispettivi Stati in veri e propri paradisi fiscali per le multinazionali. L’olandese ha guardato solo alla “inaffidabilità” italica, ispanica, greca che impone, laddove si volessero concedere prestiti ai mediterranei, una stretta sorveglianza sulle modalità di uso dei finanziamenti europei da parte dei “sudici”.

Un Paesello, come l’Olanda, ossia nulla in termini di contribuzione al bilancio europeo e in termini di pil, si permette di dettare legge, naturalmente in vece del vero dominus germanico che implicitamente lo sostiene non potendolo esplicitamente, a Paesi, come l’Italia, senza dei quali la stessa Unione Europea non esisterebbe.

La scusa è la solita secondo una narrazione menzognera alla quale purtroppo continuano a contribuire  i nostri media ed i nostri euristi globalisti: l’Italia ha accumulato un mostruoso debito pubblico proprio perché spendacciona. I parametri economici e la storia al contrario dicono che il nostro debito pubblico è aumentato a causa del peso degli interessi lucrati, in mancanza dagli anni ‘80 di un nostro garante di ultima istanza, dai mercati finanziari, mentre al netto degli interessi il nostro debito è del tutto nella norma avendo l’Italia un avanzo in attivo ossia, interessi a parte (che sono poi quelli che costringono il nostro Paese ad una elevata pressione fiscale sulle nostre imprese), lo Stato italiano non spende, in termini di spesa pubblica produttiva, quanto invece dovrebbe a favore dei propri cittadini.

Ma stante la narrazione ufficiale i nordici vogliono imporre un Recovery fund che sia basato più su prestiti che su finanziamenti a fondo perduto e quindi costringere i riluttanti mediterranei, Italia in primis, a ricorrere al Mes che, nonostante la bella favola che ci hanno raccontato, ha le sue condizionalità previste da un Trattato e quindi non abrogabili con semplici dichiarazioni politiche o desiderata degli organi istituzionali dell’UE.

Le condizionalità non solo quelle del Mes – che costringerebbero gli Stati indebitati alla svendita dei loro migliori asset a prezzi stracciati onde ripagare il debito contratto con il “Fondo Salva Stati” (una cosa offensiva sin dal nome) – dato che anche un Recovery fund pensato come grande prestito comporterà forti condizionalità che consisteranno nell’obbligo per i Paesi che useranno i fondi europei di attuare politiche di ulteriore rigore ponendo fine a ciò che rimane del Welfare ed attenendosi ad un pareggio di bilancio giugulatorio per economie in difficoltà. Insomma i soliti “compiti a casa”, dettatici dal moralismo euronordico, consistenti in politiche dal lato dell’offerta, ossia di favore per il capitale multinazionale e per le banche, senza alcun riguardo al crollo deflazionista della domanda e del pil, quindi ai fallimenti ed ai default che politiche del genere producono inevitabilmente con danno, a lungo andare, per lo stesso capitale e lo stesso sistema finanziario. Cecità allo stato puro, rigorismo dogmatico (probabilmente a scopo elettorale: in Olanda si voterà a breve e Rutte è pressato dai partiti sovranisti olandesi la cui ricetta economica è fortemente liberista), egoismo nazionale incapace di ragionare, al di là delle mere dichiarazioni di principio, in termini di solidarietà europea.

Del resto quella della “solidarietà europea” è una favoletta alla quale continuano a credere soltanto i nostri euro-imbecilli del Pd e di Forza Italia, con annessi ausiliari da Italia Viva ai 5Stelle di riserva, cantori romantici o ideologici delle virtù del “vincolo esterno” senza se e senza ma, unilateralmente accettato. Perché se una tale solidarietà ci fosse, per davvero, non si sarebbe neanche pensato ad un Recovery fund in termini di prestito ma solo di finanziamento a fondo perduto.

La verità è che l’Unione Europea non è altro che una consorteria bancocentrica e bancocratica che, mancando di consistenza politica, è dominata dagli Stati più forti, anzi dai gruppi capitalistici che, nell’epocale debolezza attuale della Politica, condizionano detti Stati. L’osservazione di Ezra Pound per la quale “i politici sono camerieri dei banchieri” è perfetta per descrivere l’essenza impolitica dell’Unione Europea.

La questione, infatti, sta tutta nella impoliticità di una costruzione artificiale e per questo sovrastrutturale come l’Unione Europea. Impoliticità che si vede ad occhio nudo nella sua incapacità di immediata decisione. L’Unione Europea è un vuoto politico realizzato, in nome di una irrealistica neutralità tecnocratica, intorno a rigidi parametri contabili che, impedendo agli Stati di fare politiche economiche idonee a ciascuno di essi secondo le proprie necessità, hanno costruito una gabbia all’interno della quale però il Politico, che si credeva di cacciare dalla porta, è rientrato dalla finestra sotto forma del sempre più crescente conflitto tra Stati in una situazione nella quale alla fine contano, al di là delle retoriche umanitarie, esclusivamente i rapporti di forza politici più che economici. Sicché, dato che in termini di forza politica, i più forti sono gli Stati nordeuropei sono essi a dettare legge a quelli euromediterranei.

«La moneta è politica. La politica è dello Stato. Lasciare il governo della moneta … è abdicare alla sovranità …» scrive Fernando Ritter (1).

Il Ritter ci ricorda l’essenza politica dello strumento monetario, contro tutte le teorie, storicamente inattendibili, dell’origine mercantile della moneta. Quest’ultima, infatti, come storiografia ed antropologia attestano, esisteva molto prima del sopraggiungere dello scambio e dell’economia mercantile. L’origine della moneta va cercata nella sfera del Sacro strettamente connessa, secondo la tripartizione tradizionale (che non fu solo indoeuropea ma è universalmente attestata) a quella del Politico (2).

L’obiezione per la quale le monete antiche avevano un valore intrinseco, in quanto coniate con metallo prezioso sicché derivavano il loro valore dal valore di mercato della materia della quale erano fatte e non dall’autorità emittente, non regge alla prova della storia. Perché mai – al di là della secondaria questione dell’eliminazione dei costi comparativi del baratto tra oro e beni – i mercanti rinascimentali preferivano usare il genovino di Genova, il fiorino di Firenze o il ducato di Venezia e non un pezzo d’oro di 3,5 grammi equivalente a quello contenuto nelle suddette monete auree? Il motivo stava nella fiducia riposta nell’Autorità emittente. L’immagine impressa sulle monete, dal doge inginocchiato davanti a San Marco, per il ducato di Venezia, alla croce di San Giorgio, per il genovino, fino al giglio, per il fiorino, ed in generale l’effigie del sovrano sulle altre monete, garantiva che dietro i 3,5 grammi di oro fusi nelle monete ci fosse la potenza politica dei regni o delle repubbliche (3).

I costruttori dell’Unione Europea hanno, invece, fatto affidamento sull’errata concezione della “moneta-merce”. Per questo si sono cullati sulle presunte certezze scientifiche della cosiddetta teoria delle aree valutarie ottimali, basata sul paradigma teorico neoclassico, che assegna ad un presunto tasso “naturale” di interesse l’equilibrio tra investimenti e risparmi nella convinzione che questi ultimi precedono i primi e che la quantità di moneta in circolazione sia un fattore determinante per il suo valore intrinseco. In questo quadro concettuale diventa importante garantire le condizioni dell’offerta ossia una forte mobilità del lavoro – ovvero l’emigrazione dei disoccupati tra le regioni della stessa area valutaria –, una altrettanto forte mobilità transnazionale del capitale, la flessibilità salariale, il favore alla concorrenza per la riduzione dei costi.

Garantite dette condizioni un’area, anche continentale, può considerarsi, secondo detta teoria, ottimale sotto il profilo valutario e monetario. In altri termini laddove dette condizioni sussistono, ossia laddove il mercato è libero di svolgere la sua benefica azione spontanea, è possibile anche l’unità monetaria. In altri termini, la moneta nasce soltanto da un mercato efficiente e lasciato liberamente operare.

In realtà la mobilità di merci e capitali come anche quella del fattore lavoro produce maggiori divergenze tra le “regioni” di una stessa area valutaria. La questione è che non può sussistere alcuna stabilità monetaria senza la presenza di uno Stato con un largo bilancio pubblico e una Banca Centrale prestatrice di ultima istanza e, quindi, garante del debito pubblico, che è esattamente quanto manca all’eurozona. Ciò che rende stabile un’area valutaria è soltanto lo Stato ovvero l’Autorità Politica.

Più dettagliatamente, secondo la lezione di un liberista come Mundell (1973), i fattori di mercato capaci di creare una area valutaria ottimale sono in ordine di importanza e necessità (4):

  • Mobilità dei fattori produttivi, ossia capitale e lavoro;
  • Flessibilità dei prezzi e dei salari;
  • Integrazione dei mercati finanziari in modo che il tasso di interesse tenda ad uniformarsi;
  • Alto grado di apertura delle economie con rimozione dei dazi e delle protezioni nazionali;
  • Elevata diversificazione di consumi e produzioni all’interno dei singoli Paesi costituenti l’area ottimale;
  • Tassi di inflazione simili;
  • Integrazione fiscale, per compensare mediante trasferimenti le partite tra Paese e Paese in caso di shock economico.

Come si vede il momento politico, corrispondente all’ultimo dei fattori dell’elenco, è quello, secondo la teoria della aree valutarie ottimali, meno importante. Proprio l’ultimo requisito, quello politico, è stato messo in ombra nella Teoria in questione. Per questo nell’elencazione esso è posto alla fine in posizione assolutamente secondaria.

In realtà, nel caso delle unioni monetarie, l’esperienza dimostra che soltanto la presenza di un bilancio pubblico “confederale” assicura la stabilità ad un’area valutaria comune. Si è dimenticato che, essendo lo Stato all’origine della moneta, è impensabile un’area valutaria che non corrisponda al territorio di una sovranità politica. In caso di caduta della domanda, è solo il bilancio pubblico a portare le risorse ove necessario e se manca un comune bilancio pubblico non sarà possibile, in assenza di  sovranità politica, far fronte alla crisi economica eventualmente interveniente in qualcuno o in tutti i Paesi aderenti alla stessa area valutaria. Inoltre senza un bilancio pubblico comune non sarà possibile effettuare politiche di deficit spending per sostenere la domanda. Politiche che richiedono il finanziamento diretto del fabbisogno di bilancio statale da parte della Banca centrale che è esattamente ciò che nell’eurozona è costituzionalmente vietato.

Il peccato originale dell’euro sta quindi proprio nella mancanza di sovranità politica, in forma confederale, con ampio bilancio pubblico, sostegno finanziario della Banca centrale e riequilibratori fiscali automatici. La teoria delle aree valutarie ottimali ha sminuito in modo assoluto il fatto veramente necessario e rilevante  ossia la presenza di uno Stato e di un bilancio pubblico associati alla moneta e senza dei quali non c’è realmente moneta ma soltanto un sistema contabile mercantilisticamente fragile ed esposto a tutti i venti della speculazione.

L’Unione Europea è un vuoto politico nel quale gli Stati hanno delegato ad organismi tecnici, politicamente irresponsabili, la sovranità monetaria, nell’illusione che, dato il presunto carattere mercantile della moneta, il mercato, e non la Politica, avrebbe garantito il raggiungimento dell’unità monetaria e della sua stabilità. In questo vuoto politico si sono inevitabilmente scatenate le tensioni tra egoismi nazionali ed è deflagrata la “lotta di classe” tra Nazioni forti e Nazioni deboli. L’Unione Europea è nata per ratificare gli iniqui rapporti sostanziali di forza tra Stati e tra mercati e popoli. Una realtà che l’élite eurocratica cerca di nascondere mediante una retorica sentimentale ed umanitaria sempre più insopportabile, soprattutto ora che l’intero continente è alle prese con la pandemia globale.

Il vero problema, tuttavia, sta nel fatto che una Unità Politica europea non è cosa che si possa realizzare dall’oggi al domani perché, dopo la Cristianità medioevale, quella  europea è stata una storia di Stati e chiese nazionali, prima, e di nazionalismi, poi, che hanno infranto l’Unità spirituale e politica dell’Europa il cui ultimo residuale baluardo, la Duplice Monarchia Confederale Asburgica, è venuto meno nel 1918. Da quel momento si sono susseguiti diversi tentativi di ritrovare l’Unità europea, da quello hitleriano del Nuovo Ordine Europeo a quello attuale della moneta unica, ma con risultati disastrosi perché privi di autentici fondamenti spirituali e metafisici dai quali possa discendere anche la necessaria forma politica unitaria per una giusta ed adeguata convivenza pluralistica dei popoli europei.

Nel passaggio dalla Cristianità medievale, attraverso l’intermezzo provvisorio e precario dell’Europa cristiana ma ormai priva di un principio davvero unitario dei secoli XVI-XIX, all’Occidente euro-atlantico post ed anticristiano attuale, consolidatosi nel XX secolo, l’Europa intesa come civiltà è morta e la sua resurrezione non sarà cosa immediata dipendendo da processi che sono innanzitutto meta-politici e quindi non soggetti completamente al dominio umano ma invocanti un intervento superiore.

Nel frattempo la comatosa Unione Europea continuerà ad essere mantenuta artificialmente in vita attraverso l’accanimento terapeutico imposto dai Paesi nordici fino a quando qualcuno non deciderà di staccare definitivamente la spina oppure i macchinari salteranno per aria. Forse quello sarà il giorno dell’inizio della vera rinascita dell’Europa.

LUIGI COPERTINO

 

NOTE

  1. Fernando Ritter “Lo pseudo capitale – moderno strumento di dominio economico-politico del mondo capitalistico”, All’Insegna del Pesce d’Oro, Vanni Scheiwiller, Milano, 1975, p. 173.
  2. Sull’origine premercantile della moneta si vedano Andrea Terzi “La moneta”, Il Mulino, Bologna, 2002, e Nuccio D’Anna “Le radici sacre della monetazione”, Solfanelli, Chieti, 2017.
  3. Alessandro Marzo Magno “Moneta. Il suo peso è nella politica” in Avvenire del 07.06.2018.
  4. Guido Iodice e Daniela Palma “Una critica alla teoria delle Aree Valutarie Ottimali come spiegazione della crisi dell’euro” in Keynesblog.com.

DA www.domus_europa.eu