Internet compie 30 anni. Homo numericus.

 

di Roberto PECCHIOLI

Internet è la rivoluzione più importante della storia umana da secoli, superiore all’ invenzione della macchina a vapore, del motore a scoppio, delle scoperte relative all’elettricità. In questi giorni la grande rete compie 30 anni. Figlia delle ricerche dell’esercito americano e del sistema di interconnessione Arpanet, ha cambiato in profondità la vita e la percezione del mondo di gran parte dell’umanità. Oltre tre miliardi e mezzo di persone hanno oggi accesso alla Rete. Internet è diventato adulto, pressoché onnipotente, sino a determinare la nascita di un nuovo esemplare umano, l’Homo numericus.

Poco definito, ma eccitante, commentò il capo di Tim Berners-Lee, nel giudicare lo schema proposto dal giovane scienziato. Era il marzo del 1989 e il padre, con il belga Robert Cailliau, della futura World Wide Web lavorava in un laboratorio del Cern in Svizzera, esplorando la possibilità di classificare e immagazzinare informazioni scientifiche. Il modello di Berners-Lee era uno schema complesso con frecce che univano un gran numero di celle, la prima rappresentazione visiva del comportamento dell’ipertesto. Muoveva il primo passo il sistema World Wide Web.

Trent’anni dopo, oltre mezzo pianeta è connesso, la breccia digitale tra i popoli diminuisce, ma aumentano le voci critiche nei confronti della Rete, alimentate dal potere dei monopoli che si sono costituiti, da scandalose violazioni della privatezza, manipolazioni, censure da parte delle grandi piattaforme digitali. L’anniversario cade in un anno cruciale per il futuro di Internet, in mezzo a decisioni globali e al risveglio diffuso intorno ai rischi del potere della Rete sulla società. Ne hanno parlato a Davos i potenti del mondo; la discussione è proseguita al G20 di Osaka, l’incontro che ha dato il via alla governance globale per la gestione dei dati. E’ stato finalmente sollevato il tema della supervisione pubblica delle tecnologie nei settori chiave della quarta rivoluzione industriale, l’intelligenza artificiale, l’ingegneria genetica e la proprietà dei dati.

Dati e metadati (l’aggregazione, elaborazione, organizzazione dei primi) sono diventati un immenso affare economico dagli scottanti risvolti etici e politici. L’abuso è la regola, come ha dimostrato l’affare Cambridge Analytica, acquirente di informazioni personali sensibili vendute da Facebook. Recenti rivelazioni su manovre e pagamenti per campagne di attacchi a oppositori di FB hanno posto sotto accusa la più grande rete sociale del mondo. Mark Zuckerberg, il dominus, è seduto su un trono di 55 miliardi di soli introiti pubblicitari all’anno, con un pubblico potenziale di due miliardi di utenti. Egli stesso proclama che il futuro della rete dovrà basarsi sul rispetto della privatezza e su comunicazioni tra gli utenti cifrate e sicure.

Non dice, né lo fanno gli altri colossi, Amazon, Google, Apple, come affrontare il problema di fondo, ovvero rendere compatibile le generiche buone intenzioni con un modello d’affari basato sulla cattura massiccia di dati degli utenti, dunque sulla disponibilità di ogni genere di informazioni relative a miliardi di persone. In un recentissimo libro, Il capitalismo di sorveglianza, la docente di Harvard Shoshana Zuboff rompe il silenzio su un modello globalizzato di economia e società basato sulla ricerca ossessiva di dati, il loro sfruttamento per fini di dominio e controllo sociale.

Le nostre menti vengono utilizzate per spremere informazioni, ma anche riconfigurate in modo rapido e radicale. La rete, ormai adulta, ha favorito una concentrazione di potere e ricchezza senza uguali, producendo un’architettura globale di sorveglianza, ubiqua, sempre all’erta, intenta ad osservare e poi indirizzare il comportamento a beneficio di chi, dalla compravendita dei nostri dati personali e delle predizioni sulle condotte future, preordinate e condizionate, trae un potere sconfinato.

 

Internet si è convertita in infrastruttura imprescindibile delle società post moderne. Lo scenario di possibili guerre cibernetiche ha indotto la Russia a una prossima disconnessione temporanea dalla rete per testare sistemi di reazione e difesa. Tra Cina e Stati Uniti è in corso una guerra fredda tecnologica senza esclusione di colpi per il dominio del sistema di telecomunicazioni basato sulla fibra 5G. L’aumento delle capacità di connessione ad altissima velocità permetterà lo sviluppo di città automatizzate, automobili senza conducente e dispiegherà l’immenso potenziale di Internet delle Cose (IOT). L’ acronimo IOT prefigura un mondo talmente nuovo nel rapporto con e tra gli oggetti da oscurare la rete come la conosciamo oggi. L’espressione indica il diretto collegamento delle cose alla rete e la loro interazione, lampadine intelligenti, portachiavi con localizzatore, sensori degli elettrodomestici, televisioni smart in grado di funzionare come registratori e mille altre funzioni destinate a rovesciare il nostro rapporto con la materia non più inerte, il cui controllo diventerà potere.

Il timore è che pochissimi onnipotenti, sottratti alle leggi statali ed internazionali, dirigano, possiedano senza limiti la tecnologia protagonista della prossima rivoluzione digitale, così come cresce il rischio di privatizzazione definitiva delle reti di telecomunicazione, le autostrade digitali dove corrono e fluiscono a velocità impressionanti i dati e le informazioni, le nostre, intime, e quelle riservate, di interesse strategico. Si abbassa l’indice della libertà della rete, per responsabilità delle grandi piattaforme e dei governi. La digitalizzazione del pianeta è un fatto; alcuni organismi internazionali dovrebbero vegliare sulla libertà di Internet, come l’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni, ma la verità è che la rete è alla mercé delle grandi multinazionali tecnologiche che impongono termini e regole di accesso consolidando monopoli globali.

Il rimedio suggerito da Berners-Lee ci appare peggiore del male, formare una comunità globale di Internet, retta da qualcosa di simile alla dichiarazione universale dei diritti umani. Aria fritta, parole in libertà, principi astratti nelle mani di burocrati orientati dai governi più potenti e soprattutto dalle corazzate transnazionali. Internet deve diventare un bene comune dell’umanità intera, da sottrarre all’oligopolio. Ha ragione Berners-Lee a temere un “futuro disfunzionale”, ma l’elemento dominante non può essere la tecnologia, le cui soluzioni non possono essere che strumentali, bensì una presa di coscienza da parte nostra, affinché una straordinaria opportunità di libertà non finisca in oppressione, sorveglianza, omologazione planetaria.

Al riguardo, è opportuno svolgere alcune riflessioni, a partire dalla constatazione che Internet, cresciuto insieme con gli apparati tecnici dei quali non possiamo più fare a meno, ha generato un essere umano di tipo nuovo, l’Homo numericus.  Figlio spurio dell’animale politico di Aristotele, variante contemporanea dell’Homo sapiens, l’homo numericus prodotto dall’azione della rete vive una epocale torsione esistenziale da cui emerge una nuova identità, l’identità digitale. L’ homo numericus parla un nuovo linguaggio, introietta nuove regole di comunicazione con l’altro, vive di immagini, si distingue per codice a barre, si forma un’idea del mondo per frammenti, lampi, flash dell’immediato, lacerti di conoscenza discesi dall’alto. Poiché quest’uomo di cui cominciamo a distinguere i tratti si percepisce diversamente dal passato, è la vita stessa ad essere modificata. Il rischio, dice lo psichiatra Vittorino Andreoli, è che attraverso le possibilità dischiuse da Internet l’uomo diventi un sacco vuoto con dentro uno smartphone spento. La rete è uno spazio virtuale illimitato in cui entra di tutto e non si butta via nulla. Il cumulo, la sovrabbondanza generano confusione, difficoltà di scelta (la prima pagina dei motori di ricerca toglie l’incombenza alla stragrande maggioranza…), impossibilità a decidere in autonomia secondo qualità, ma il primo disagio resta la bulimia di dati. Internet assomiglia a un’immensa cisterna a disposizione di un assetato, che però non è in grado di sapere se berrà acqua inquinata. Andreoli parla con preoccupazione di “discarica dei dati”, in cui il sapere affastellato diventa inservibile.  L’ignoranza crescente è un altro problema: non sappiamo scegliere per eccesso quantitativo, ma soprattutto perché la conoscenza non interessa più. Tanto, su Internet c’ è tutto. Perché studiare, ricordare nozioni, disporre di una biblioteca o saper eseguire calcoli, formarsi opinioni personali, se un piccolo apparato si incarica di risolvere per noi ogni problema, anzi pensa al nostro posto? Basta digitare, avere un sufficiente numero di “giga”, un buon piano tariffario e il gioco della vita cambia dalle fondamenta. Non serve neppure ricordare il da farsi del giorno: un’apposita agenda ci guida. Se viaggiamo, la miracolosa app di Google Earth indica la via. L’orientamento, istinto ancestrale, è progressivamente cancellato. La memoria si sposta dal cervello a Internet, da biologica si fa digitale.  Basta eseguire periodici backup, conservare i dati in qualche angolo della memoria elettronica e il difficile esercizio di rammentare, annodare i fili del pensiero, passa da noi stessi all’oggetto artificiale. Smarrirlo, diventa una tragedia esistenziale. Diventiamo noi, esseri umani transitati dalla condizione di sapientes a quella di numerici, la protesi della macchina che non esegue comandi, ma ci agisce. Il gesto di consultare lo smartphone e connettersi alla rete, per messaggi, notizie, conversazioni sui social media, è compiuto centocinquanta volte al giorno dalle generazioni più giovani. Il concetto di cultura è cambiato alla radice: per sapere è sufficiente digitare. Il vuoto si colma nella confusione tra possesso del mezzo, informazione e conoscenza. Il nuovo sapiente digitale, l’autentico homo numericus, è uno che non sa niente, ma dispone dello strumento per conoscere tutto. Un tutto di cui non gli importa nulla, giacché il sistema impone la padronanza esclusiva di “ciò che serve”, concetto che si può riassumere nell’addestramento a svolgere mansioni per cui si è pagati o compiere atti che appaghino i desideri. In questo senso, è del tutto ozioso affermare che lo strumento è neutro, mentre buono o cattivo è l’uso che se ne fa. Sarebbe così se Internet e le tecnologie sottostanti fossero un medium come gli altri. L’eccedenza di intensità, la forza dispiegata, i meccanismi, le abitudini, i modi di vita che determina in miliardi di esseri umani, le ricchezze, il potere, gli strumenti che genera, inducono a un’analisi meno spensierata.  Una riflessione preoccupata sulla la rivoluzione digitale riguarda l’enorme capacità di controllo, la sorveglianza perenne, la disponibilità illimitata di informazioni possedute da chi controlla la rete e le sue grandi autostrade (piattaforme social, proprietari dei sistemi operativi, giganti del commercio elettronico, titolari delle reti di comunicazione). Internet ha realizzato il Panopticon globale inventato da Jeremy Bentham, intuito come esito della modernità da Michel Foucault. La chiave del successo è la volontarietà: siamo noi a consegnare il file della nostra vita, attraverso la normale navigazione, le ricerche, gli acquisti, ciò che scriviamo su Facebook, le foto che inviamo e visioniamo su Instagram. Ci schediamo da soli, con piacere e gioia di tutte le polizie, nonché, ovviamente, di chi disegna il nostro profilo con precisione millimetrica e finisce per sapere, di ciascuno, più di lui stesso.  Il villaggio globale di Mc Luhan si è trasformato in un immenso bazar planetario, dove si vendono beni, servizi, sogni, vizi, una gigantesca sala giochi per adolescenti di ogni età. La rete funziona da disinibitore per incolti, ossessionati e paranoici, protetti dall’anonimato. La forza di Internet sta nella capacità di trasformare l’utilizzatore:il web cambia il mondo e l’uomo che vi abita. Perde importanza la parola scritta, pilastro del mondo ante-Internet; ciò implica la marginalizzazione della relativa cultura, relegata in uno spazio museale. Régis Debray osserva che siamo passati dalla grafosfera alla videosfera, regno dell’audiovisivo. Una conseguenza è l’impoverimento progressivo del linguaggio e degli idiomi, con l’imposizione di un inglese da annunci dell’aeroporto, il globish.   Il primato dell’immagine ha varie ragioni: è una risorsa facile da produrre e ancor più agevole, immediata, da “consumare”. Non si osservano immagini, né si ascolta con lo stesso spirito con cui si legge. Gilles Lipovetsky ha definito il presente come l’epoca dello schermo globale (computer, televisione, telefono cellulare, Internet, schermi tattili). Dovunque, viviamo chini guardando uno schermo e pigiando tasti. L’homo numericus vive nel virtuale. Virtuale è Alice, l’assistente dei sistemi Android, iOS e Windows, virtuale il mostro dei videogiochi e l’amicizia stretta su Facebook con un clic. Il transito dal reale al virtuale rende il simulacro più vero della natura, iperreale, per Jean Baudrillard.  Si è imposta l’egemonia dell’istantaneo. Internet si fonda sul consumo immediato dei contenuti, e i fatti che descrive “in tempo reale” si propagano per l’intero pianeta: pensiamo all’effetto domino delle crisi finanziarie. La lunga durata perde interesse, è scartato con fastidio ciò che richiede tempo, studio, attenzione, costanza. E’ una pressione che divora il passato senza proiettare nel futuro. Anche per questo la società è divenuta liquida, ossia instabile nelle relazioni, nelle identità, nei legami sentimentali, che infatti si sfaldano a velocità crescente. Il virtuale, territorio privilegiato del web-mondo, produce deterritorializzazione. Le tecnologie che utilizziamo quotidianamente non hanno alcun legame con un luogo preciso, tendono a sopprimere le identità stabili, enfatizzando nuovi sorprendenti valori, la mobilità, la trasparenza, la disponibilità a mutare se stessi. Prevalgono i flussi sui codici, come avevano previsto Deleuze e Guattari. E’ la logica marittima che conosce ondate e flussi, vincente su quella tellurica, legata alla concretezza del territorio.  L’homo numericus è dappertutto e in nessun luogo. La rete connette, ma serve anche a disconnettere, creando fossati tra comunità virtuali, tribù digitali, realtà esterna. In questa alchimia delle moltitudini, le reti sociali di Internet non offrono rimedi alla disgregazione sociale, non servono progetti comuni. Informazione e comunicazione non sono sinonimi; le tecnologie digitali fingono di valorizzare la singolarità degli individui, ma producono greggi. Dietro la comunicazione planetaria ultrarapida, innegabile prodezza tecnologica, fa la comparsa il condizionamento camuffato dall’ apparato di propaganda. Nuovi deserti crescono in parallelo con l’esplosione di immagini, generando non senso. Il desiderio di libertà assoluta, indotto dal grande meccanismo, si inverte in assoluta dipendenza. L’homo numericus non decide né domina alcunché, prigioniero della tecnologia. Tale è lo stato dell’arte a trent’anni dalla nascita di una dei più straordinari successi della scienza applicata. Internet e ciò che ne è scaturito in termini di potere, economia, mutamenti esistenziali, opportunità, ha cambiato in profondità non solo il mondo, ma ciascuno di noi nel rapporto con la vita, gli altri, la conoscenza, la realtà. Ha modificato anche la verità, che non è tale se non è proclamata, confermata, propagata dalla rete.  A trent’anni, adulti, si deve navigare nel mare della vita con bussole sicure, conoscere la rotta. Il mezzo Internet è tanto potente da divenire scopo, centro di gravità. Grandi opportunità, enormi aspettative di libertà, conoscenza, giudizio. Ma la nave, il viaggio, non è un fine. A trent’anni inizia la maturità. Buon compleanno a Internet e alle sue meraviglie, a patto che non si sostituisca al pensiero libero, alla scintilla divina dell’umano, al bene e al male, ai limiti e alle fragilità dell’homo sapiens, antica creatura il cui sguardo non è fisso su uno schermo, il cui animo tende verso l’alto, il cuore aperto all’altro uomo e le mani che cercano il concreto appiglio della realtà.