Così la Chiesa africana contrasta gender, Ong e modernismo

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La Chiesa è oggi attraversata da una quantità di divisioni e contrasti che appare quasi inaudita. Per capirne qualcosa, limitando la nostra indagine allo “scontro” Africa-Occidente, si può partire da una recente intervista rilasciata al Catholic Herald dal celebre cardinale nigeriano Francis Arinze.

Il prelato, che ha vissuto in prima persona la condizione di rifugiato, ricorda che talvolta è necessario, pur a malincuore, abbandonare la propria patria. In generale, però, “ogni governo deve capire, a quante persone si può provvedere?”, il che non significa solamente permettere “l’entrata” a chicchesia: alle persone occorrono, per una vita dignitosa, anche un lavoro, una famiglia ecc. Soprattutto Arinze ci tiene a ribadire che i paesi occidentali non devono “incoraggiare i giovani a venire in Europa quasi vi trovassero il paradiso, un posto dove il denaro cresce sugli alberi, ma per aiutare i paesi dai quali provengono”. Una simile dichiarazione è stata subito rilanciata da alcuni giornali come una presa di distanza nei confronti delle reiterate dichiarazioni di Bergoglio riguardo all’immigrazione.

In effetti, al netto di qualche tono esagerato, secondo le esigenze dello stile giornalistico, le cose stanno proprio così. Gli ecclesiastici africani, pur senza mai prendere di petto il pontefice, sono soliti vedere l’altra faccia della medaglia: accennano, sulle prime, all’importanza dell’accoglienza verso chi fugge da condizioni difficili, ma un attimo dopo si soffermano sul fatto che a farlo sono, di massima, i più giovani, i più robusti, e non tanto per cause di forza maggiore, quali la guerra o la fame, quanto perchè attratti dalle sirene del consumismo e di una certa propaganda occidentale.

In Africa, alla fine, rimangono proprio i più poveri, quelli che non hanno i soldi per fuggire, i vecchi, le donne e i bambini, e il continente rischia così di essere ulteriormente indebolito, invece che soccorso!

Abbiamo bisogno dei nostri giovani qui”, e non vogliamo che affrontino la morte nella traversata del deserto e del mare, oppure la perdita di ogni dignità (finendo schiavi, criminali o mantenuti), perchè attratti da sirene ingannevoli e da “falsi miti”: così al mensile il Timone, nel mese di luglio, un altro cardinale africano, John O. Onaiyekan.

Analoghe considerazioni hanno svolto, in più occasioni, il presidente della conferenza episcopale del Congo Nicolas Djomoil cardinale guineano Robert Sarah e altri autorevoli esponenti della Chiesa cattolica.

Ma la distanza siderale tra la concezione dei prelati africani, che talora insistono anche sul pericolo, per l’Europa, di un’ “invasione islamica”, e quella propugnata dagli ambienti vicini a santa Marta (per nulla spaventati nè dall’Islam nè dal fenomeno migratorio) non si limita al grande tema dell’immigrazione.

Qualcuno ricorderà come al sinodo sulla famiglia del 2015 il cardinale tedesco Walter Kasper, leader degli innovatori con placet papale, avesse espresso pubblicamente il suo fastidio nei confronti dei padri sinodali africani con una frase lapidaria che aveva generato scalpore per il suo carattere perentorio e, diciamolo pure, un po’ “razzista”: “loro [ gli africani] non dovrebbero dirci troppo quello che dobbiamo fare”.

In effetti, in quel dibattutissimo Sinodo, i padri africani avevano chiesto insistentemente che la chiesa rimanesse fedele al suo secolare insegnamento sul matrimonio, così significativo per chi ogni giorno si confronta con culture, quella islamica e quella animista, in cui il matrimonio indissolubile cattolico è contrastato, a tutto svantaggio della dignità della donna (spesso costretta, se non all’harem, quantomeno a subire il ripudio) e del matrimonio stesso.

Nello stesso tempo i padri africani avevano denunciato, con veemenza, la volontà di governi e Ong occidentali di imporre all’Africa l’ideologia gender, dietro ricatto: no gender, no aiuti economici! Ebbene questa nettezza, riguardo al matrimonio e all’ideologia gender, aveva generato l’ostracismo e il fastidio dei padri occidentali più vicini al nuovo corso, impegnati, come alcuni prelati tedeschi, cardinali di nuova nomina (Blaise Cupich, Joseph William Tobin e Kevin Joseph Farrell, su tutti) e altri uomini vicini al pontefice (bastino i nomi di mons. Vincenzo Paglia e Marcello Semeraro), a costruire ogni giorno nuovi “ponti” con il mondo LGBT.

Proprio dopo il Sinodo del 2015 il cardinal Arinze era intervenuto con forza, rilasciando un’intervista a LifeSiteNews nella quale di fatto prendeva di fatto le distanze dal documento Amoris Laetitia, affermando la coincidenza tra carità e verità, e sostenendo che neppure il papa ha il potere di cambiare la dottrina evangelica, confermata dalla tradizione. Non una posizione isolata, neppure questa, bensì comune a molti degli ecclesiastici africani, come dimostra un’interessante raccolta di interventi teologici uscita all’incirca nel medesimo periodo: “Africa. La nuova patria di Cristo. Raccontata dai vescovi africani” (vedi qui).

Ma non è finita: torniamo all’intervista più recente, sempre di Arinze da cui siamo partiti. Al di là del tema immigrazione, il cardinale mette avanti un’altra preoccupazione, già espressa da altri cardinali, come Burke, Brandmueller, Pell, Müller ecc: quale direzione prenderà il sinodo sull’Amazzonia? La preoccupazione è palpabile, poiché da anni si vocifera dell’intenzione di Bergoglio di aprire gradualmente al matrimonio del sacerdoti.

Arinze esprime anche in quest’ occasione un pensiero tradizionale, che connota gran parte della chiesa africana e la distingue, ancora una volta, dalla piega presa, dopo l’abdicazione di Benedetto XVI, in Occidente.

Il celibato dei preti, ricorda, non è un dogma, “ma una pratica che ha molte buone ragioni” a partire dalla scelta di Cristo stesso, di san Paolo, e che è stata sostenuta nei secoli da teologi e santi come san Tommaso d’Aquino, san Robero Bellarmino eccetera… Perché voler mettere in discussione anche questo? Per creare ulteriore confusione e divisione?

Arinze non arriva a dire, come il collega africano Sarah, che la chiesa sta vivendo una “notte nera”, ma lascia intendere un notevole sgomento, suo e dei fedeli: “Ogni giorno ricevo chiamate d’aiuto da ogni parte, da coloro che non sanno più in cosa devono credere”!

Insomma, se avremo un “papa nero”, come cantava alcuni decenni orsono il gruppo musicale veneto Pitura freska, sarà più probabilmente un altro Benedetto, piuttosto che un altro Francesco.

Così la Chiesa africana contrasta gender, Ong e modernismo