La pena di morte nell’Occidente dei diritti.

di Roberto PECCHIOLI

Il sistema attuale non ha abolito la pena di morte.  Ne ha solo trasferito l’applicazione dal ministero della Giustizia e quello della Sanità” (cit).

 

Vincent Lambert è morto. Nel modo più atroce, per disidratazione imposta dal potere, con i genitori impediti ad assisterlo nell’ora estrema dai gendarmi della République dei diritti dell’uomo, libertè, egalité, fraternité.  Un altro indifeso, dopo Alfie e mille altri sconosciuti, ha sperimentato la pena di morte della società aperta, liberale e libertaria. Si tratta, ancora una volta, di un infermo che la medicina aveva salvato senza riuscire a restituirgli salute e autonomia. Quando il conto economico della vita di un malato si fa pesante, la decisione è presa: pena di morte. La decreta non un tribunale penale, ma l’istogramma dei costi, l’algoritmo della vita espresso in unità di conto che riconosce diritti reali solo a chi è giovane, performante, produttivo, pronto a consumare. Per gli altri, c’è la morte, la soppressione di quel grumo di materia considerata inerte, inutile, un fastidio oltreché un costo sociale.

Un calcolo “obiettivo” eseguito da un computer è la sentenza capitale postmoderna, la ghigliottina per i perdenti nella società dell’efficienza, dello spettacolo, del consumo.  C’è qualcosa di profondamente malato, oltreché radicalmente contraddittorio, nel senso comune di quest’ Occidente terminale sazio e disperato. La prima civilizzazione che ha rimosso la morte ne è letteralmente pervasa. Dopo aver espunto dai codici giuridici la pena capitale, l’abbiamo ripristinata nei fatti attraverso meccanismi di soppressione della vita promossi dagli interessi più tenebrosi – economici, finanziari, elitari – coperti da immense ipocrisie: morte degna, fine vita, diritto all’autodeterminazione, e tante altre torsioni semantiche, sintagmi diffusi dal livello più elevato del potere nell’opera di decostruzione psicologica e ingegneria antropologica in corpore vili sulla nostra pelle. E’ la liquidazione dell’uomo, la vittoria della pulsione di morte teorizzata da un cattivo maestro della contemporaneità, Sigmund Freud. Il medico viennese descrisse un altro lato oscuro della modernità avanzante, il “perturbante” (unheimlich), la condizione simile all’angoscia per l’estraneità che pervade quando non si riconosce più l’ambiente circostante.

Perturbante è rendersi conto che l’Occidente si è trasformato in un luogo ostile alla vita, attraversato da un tenace istinto di autodistruzione. Il caso di Vincent Lambert ne è un esempio. Oltre due secoli dopo aver teorizzato i diritti dell’uomo – il primo dei quali dovrebbe essere quello alla vita – la Francia sopprime un suo cittadino, membro della nazione che l’abate Sieyés considerava il soggetto sovrano titolare di ogni potere, diritto, volontà. Senza saperlo, la nation ha ucciso se stessa, eliminando il cittadino Lambert, non più titolare di diritti. La svolta drammatica è che avviene nell’indifferenza generale. Il corpo sociale- se ancora esiste – ha metabolizzato, digerito anche questa. Era malato, le cure non potevano restituirlo alla vita produttiva e alla salute, meglio rimuovere il problema. Applausi del pubblico, la gente approva ciò che le viene fatto approvare per accumulazione di messaggi univoci, poche parole assopite della Chiesa in tutt’altre faccende affaccendata.

 

Se non sei sano, levati dai piedi, e, per cortesia, fallo di tua volontà, con le carte in regola, con il testamento biologico, il suicidio assistito, l’eutanasia. Se sei depresso, fai come la ragazza olandese Noa Pothoven, organizza il tuo addio a questo mondo con l’approvazione dello Stato, alla presenza di esperti e burocrati, in diretta sulle reti sociali. Sarà la quantità di commenti e il numero di “mi piace” a decretare il successo dell’ultima prestazione tra i vivi. Siamo passati dalla sacralità della vita alla banalizzazione e spettacolarizzazione della morte. Se qualcuno ci guadagna, tanto meglio, è la società aperta di mercato, bellezza. Tout passe, tout lasse, tutto passa, cerchiamo di approfittarne finché siamo in tempo.

 

Impressiona questo insensato delirio di onnipotenza e insieme di urgenza, un angoscia perturbante, da tempi ultimi. Ne fu profeta il musicista Jim Morrison alla fine degli anni 60 del secolo passato, chiedendo, in una famosa canzone, “di cancellare il mio abbonamento alla Resurrezione”. Bisogna vivere in fretta, qui e adesso, inseguire le emozioni più estreme in un eterno presente, un istante brevissimo e accecante nel quale “prima di naufragare nel grande sonno io voglio udire il grido della farfalla”. Detto e fatto, Morrison, voce carismatica dei Doors, punto di riferimento per milioni di giovani, morì a soli 28 anni, trovando la morte per cui era vissuto, “This is the end, my only friend, the end”, questo è la fine, mia sola amica, la fine. Questi sono i modelli andati al potere, quella la loro anti filosofia.

 

Vincent Lambert voleva vivere e glielo ha impedito il destino, con l’aiuto determinante di un potere assassino. Al di là di ogni considerazione etica, non dobbiamo dimenticare che la forza delle élites (parola elegante per definire mascalzoni senza principi) è il biopotere, cioè il diritto di vita e di morte su di noi, proprio su di me e su di te. Appare grottesca la legge scritta; la costituzione italiana garantisce solennemente i “diritti inviolabili dell’uomo “(articolo 2).  Quali saranno, in concreto, queste intangibili prerogative, se tra esse non è compresa la tutela della vita? I codici penali moderni hanno eliminato la pena di morte come retaggio dell’epoca buia di un’umanità non ancora conquistata dal progresso. Ascoltammo una volta le considerazioni di un intellettuale di grande fascino, Giano Accame, un maestro emarginato dall’Italia ufficiale.  Accame sosteneva che la pena di morte, il potere supremo di sopprimere vite ritenute dannose o indegne per le azioni commesse, può essere esercitato solo da governi di profonda legittimità morale, la cui autorevolezza e il cui elevato senso di giustizia può spingersi sino all’eliminazione fisica dei peggiori membri della comunità.

 

Non è davvero il ritratto del potere vigente, amorale per definizione, tanto nella sfera politica quanto in quella economica, finanziaria, tecnologica e culturale. Eppure, questo bio-potere guasto si è arrogato il diritto di dare la morte: è malato, è depresso, non è curabile, è vecchio, è un peso, uno scarto, ha perso il diritto di vivere nella società dei diritti, delle emozioni, dei desideri. Da troppe parti, si rifiuta con irritazione il dibattito, il tema sollevato non è ritenuto pertinente in un mondo invertito in cui non esiste più comunità e neppure società, solo individui da dividere per censo, reddito, capacità di consumo, in cui unica regola è lasciar fare, lasciar andare, purché serva all’economia, al sacro Prodotto Interno Lordo, a lorsignori.

 

Ma quale argomento è più pertinente della vita? Dicono che la bioetica è un soggetto per credenti religiosi, da trattare in privato, a bassa voce per non turbare i manovratori e senza pretendere di farne pubblico dibattito. Noi affermiamo invece che è il tema laico per eccellenza. La vita di Vincent Lambert è stata interrotta da una decisione dello Stato (in Francia dicono pomposamente république o nation), attuata per mano di persone definite esperti professionali, investite di potere assoluto in un quadro legislativo complesso.  Vincent è nulla, adesso, per la Francia laica e l’Occidente “adulto”, cioè incredulo. Ha perduto la sua occasione di vita, il suo orizzonte unico si è interrotto definitivamente. Capitolo chiuso, il dossier – poiché questo siamo, pratiche numerate – è archiviato. Un bel rischio per monsieur e madame Dupont: domani può riguardare loro, in condizioni analoghe.

 

Intanto, tocca ogni giorno a migliaia di grumi di cellule – proprietà indiscutibile del corpo femminile in cui si sono formate, sia pure con l’intervento di un estraneo, l’esemplare maschio della specie umana- attraverso la banalizzazione dell’aborto, la soppressione della vita in fieri. La verità è che, abolito Dio, scompare velocemente anche la sua ex creatura, l’uomo, travolta dalla volontà di potenza. Per il credente, è facile immaginare un Dio finalmente benevolo che accoglie Vincent Lambert, il piccolo Alfie e i milioni di non nati per volontà egoistica di singoli individui. Per il credente, non è finita, il Nulla è sconfitto da un’energia superiore che definiamo Dio.

 

La vita umana è sacra, ormai, solo per chi crede in qualche forma di trascendenza. Per tutti gli altri, con sfumature diverse, è solo un accidente nel cammino del mondo, da difendere solo se “conta” o se spinge in alto il diagramma dell’economia. Nei paesi proposti come modello di civiltà, Olanda e Svezia, la morte “programmata”, eutanasia sotto varie forme, interruzione di cure, suicidio assistito ed altro, rappresenta circa un quarto dei decessi. La pena di morte è dunque la compagna quotidiana dei ricchi cittadini del nord Europa (ex) protestante, individualista e, per definizione, “libero”. Viene da sorridere ricordando la sorpresa di Richard Easterlin, l’economista che enunciò il paradosso a cui ha dato il nome, ovvero che i popoli più felici non sono affatto i più ricchi, in danaro e diritti.

 

Con la pena di morte, in Occidente abbiamo ripristinato la tortura; non nella forma odiosa delle pene corporali o delle confessioni estorte con la violenza (ma a Guantanamo gli americani la praticano in nome della democrazia!) bensì nel dramma quotidiano delle dipendenze. Alcool, droghe, abuso di sostanze di vario genere, ma anche angoscia, sesso e gioco compulsivo diventati obblighi, torture negli esiti e nelle fasi di astinenza. Ma bisogna lasciar fare, lasciar passare, perché quello è l’imperativo pratico del paradiso liberale dei diritti e delle opportunità. Diventiamo tutti, per indifferenza e perché schiavi della società dello spettacolo, tricoteuses postmoderne. Le tricoteuses, al tempo della rivoluzione francese in cui la ghigliottina lavorava a pieno ritmo mozzando teste sulla pubblica piazza, erano donne che passavano il tempo ad assistere alle esecuzioni capitali, sghignazzando oppure annoiandosi, ma sempre continuando a sferruzzare nel lavoro a maglia.

 

La piazza è sostituita dallo schermo su cui vediamo tutto (TV, computer, smartphone), il boia ha il camice bianco e agisce tra siringhe e stanze disinfettate. Solo il potere, padrone della vita e soprattutto della morte, è uguale a se stesso, nihil sub sole novi, cambiano le modalità, non la sostanza. Per la prima volta è richiesto non solo l’applauso di chi assiste, ma il consenso dei protagonisti, cioè di chi viene soppresso. Contratti precisi legalmente registrati regolano le fasi del “fine vita” sino alla decisione sul destino dei poveri resti. Nel caso dei feti, i più indifesi, talora vengono estratte sostanze per usi industriali, per il resto sono rifiuti speciali da smaltire con procedure e protocolli stabiliti. Si è estinta la riflessione sul senso della vita, per cui il corpo morto suscita orrore e viene nascosto.

 

Il rispetto dei morti, i riti che li riguardano e le forme di sepoltura sono un elemento comune di ogni civiltà che rispetti se stessa. L’Occidente regredisce anche su questo versante: negli Usa, i cadaveri possono essere trasformati in materiale di compostaggio; ovunque, i cimiteri sono sempre più deserti, milioni di persone scelgono di essere trasformate in polvere e di disperdere i resti. In compenso, nascono cimiteri per gli animali da compagnia, i vigili del fuoco salvano piccioni intrappolati e gatti in pericolo. Molti anni fa, intuimmo l’aria che cominciava a spirare quando vedemmo una squadra di pompieri intenta a dissuadere un suicida, insultata da un gruppo di giovani, per i quali la volontà di morte del poveretto non doveva essere fermata. Una volta era patrimonio comune la “pietas”, il senso di rispetto per l’altro come consimile, che si estendeva oltre la vita, raggiungeva la dimensione etica e coincideva con una religiosità istintiva. Stiamo perdendo anche la pietas verso noi stessi; che altro è l’autodistruzione se non disprezzo profondo per ciò che siamo?

 

Senza tombe, nozze e altari, lo capì Ugo Foscolo, non c’è civiltà, solo esistenza materiale, istinto separato dall’amore. Non vogliamo lasciare segni visibili del nostro passaggio, vogliamo sparire, annientarci, disincarnati in una deriva antiumana il cui paradosso è che restano di noi solo le tracce informatiche, rinchiuse in una nuvola virtuale priva di luogo, il cloud. Ha prevalso la logica utilitaria del darwinismo sociale, sopravvive chi vince, agli altri, i perdenti, nessun destino.  Anticipò tutto Malthus, il pastore protestante che sconsigliava le nascite per timori economici, limitandosi tuttavia a consigliare la virtù della continenza, non a promuovere sterilizzazioni o aborti di massa.

 

Come non si può decidere della propria morte da sani, non si può lasciare che la pena di morte sia stabilita e praticata dal potere, con il supporto degli esperti. Quel tale è un depresso cronico, quella malattia non regredisce, quella madre non saprà provvedere al figlio che ha in grembo: la sentenza di morte non ha bisogno di tribunali. E’ una società assassina a cui dovrebbero ribellarsi innanzitutto i medici, la cui professione è da millenni il più grande inno alla vita. Ippocrate era un vecchio sognatore romantico, prescriveva al medico l’impegno per la vita del paziente, ma una civiltà abitata da medici e terapeuti boia seriali per conto del potere, dello Stato o della volontà soggettiva ci agghiaccia per il gelido totalitarismo antiumano che contiene. Non è una distopia ambientata nel futuro, ma un presente destinato ad allargarsi, perfezionarsi, raggiungere nuove mete di morte camuffate da diritti, dignità, opportunità.

 

La soluzione finale è a portata di mano, ma il termine è riservato a un unico drammatico momento della vicenda umana, il progetto nazista di genocidio degli ebrei. La prospettiva umanistica è abbandonata con moto accelerato a favore della statistica, modelli matematici, proiezioni, istogrammi, ascisse e ordinate, il cui oggetto sono proprio io, la mia vita, la mia carne di uomo che può sopravvivere solo se supera i test di compatibilità economica. Se la risposta impersonale del sistema è negativa, devo morire. Meglio se con il mio consenso attivo, per rispettare le forme, ma si può procedere d’autorità, leggi alla mano e gendarmi alla porta, come per Vincent Lambert, il piccolo Alfie e tutti gli sconosciuti ridotti a un codice a barre da obliterare, pratica burocratica da chiudere.

 

La mistica occidentale dei diritti è trasformata in un’irrazionale religione secolare, nella quale è affievolito il diritto alla vita se non si è ricchi, potenti, sani. Anche il diritto alle cure si scontra con la regola aurea costi/benefici e il conflitto irrisolto tra l’avanzata dei mezzi – terapie, farmaci, chirurgia- in grado di garantire la sopravvivenza e la drammatica pratica quotidiana di vite precarie mantenute attraverso macchine, apparati, cure costose. Il metro di giudizio diventa sempre più la solvibilità personale e familiare (aspirazioni degli eredi permettendo), la soluzione più semplice è farla finita con quel trancio di carne avariata che, nel giudizio confezionato per formare l’opinione corrente, non è più un essere umano “degno”. Ecco dunque la preferenza accordata, con nobili pretesti umanitari, a un sistema analogo al mattatoio zootecnico.

 

Immaginiamo con orrore una distopia burocratica fatta di moduli appositi e personale specializzato: “in ottemperanza al codice mortuario vigente, preso atto del testamento biologico depositato presso l’ufficio competente, visto il nulla osta dell’autorità sanitaria, il diritto alla vita di Rossi Mario, identificato con il codice a barre in calce indicato, è perento. Si procede pertanto all’esecuzione del presente decreto di morte, previo espianto degli organi suscettibili di riciclo o riuso.“  Temiamo che l’accento sardonico sia giustificato e descriva un futuro non lontano. Nella società dei diritti dell’uomo astratto che si ritorcono contro popoli e persone in carne e ossa, anche la morte è cedibile a un padrone. Nel teatro dell’assurdo, si oscilla tra un estremo all’altro. Il diritto alla vita e alla morte è teoricamente soggettivo, ma la proprietà del corpo, nel caso di Vincent Lambert, se l’è attribuita il biopotere sovrano, il quale, con il massimo atto di imperio, ha soppresso un cittadino considerato non più soggetto di diritto, proclamato materiale da eliminare e poi smaltire, in spregio dei diritti dell’uomo dei progenitori giacobini.

 

La materia è complessa, scabrosa, non può essere affrontata tagliando tutto con l’accetta, ogni bene da un lato, tutto il male dall’altro. Sensibilità, prudenza, saggezza e soprattutto un amore tenace della creatura umana dovrebbero prevalere sull’utilitarismo dilagante; occorre tuttavia una rivolta ideale, un’obiezione etica alla riduzione a cosa della persona che l’Occidente non sembra più in grado di attingere dai suoi pozzi disseccati. Cresce il dislivello prometeico di cui parlò Gunther Anders in L’uomo è antiquato, la distanza sempre più grande tra i mezzi tecnici dispiegati dall’uomo e la realtà concreta di esseri infinitamente inadeguati a controllare, frenare le conseguenze, prevedere gli esiti di ciò essi stessi hanno prodotto. Finiamo come struzzi con il capo sotto la sabbia e accettano l’imperio assoluto del nuovo biopotere antiumano.

 

Di qui la necessità di riflettere su ciò che abbiamo smesso di indagare, il senso della vita, la dignità e il rilievo della nostra presenza nel mondo, il destino che eccede la nostra comprensione. Serve riabilitare laicamente quel criterio di prudenza e rispetto per le generazioni future che Hans Jonas chiamò principio responsabilità. Oppure dovremo accettare definitivamente la folle onnipotenza che coltiviamo come il nostro più fatale difetto. La vittoria della pena di morte con i mezzi postmoderni della seduzione e della reificazione dell’uomo avrà finalmente il suo premio, sotto forma di cartellino del prezzo e data di scadenza. La condizione dell’animale domestico, accettata con sconcertante leggerezza, si porta dietro quella della bestia da macello.