Werner Sombart. Metafisica del capitalismo.

di Roberto PECCHIOLI

                                         Parte I. Metafisica del capitalismo.

Werner Sombart (1863-1941) è stato il maggiore sociologo del suo tempo, per decenni professore ordinario a Berlino. Fu l’inventore della parola capitalismo nel significato che ancora attribuiamo al termine, riportò lo studio di Marx al centro della cultura tedesca e fu l’autore dello studio più completo sullo spirito del capitalismo e sulla natura borghese. Ciononostante, il suo destino è quello di essere pressoché dimenticato. Difficile reperire le sue opere in libreria e persino in biblioteca, anche le due capitali, Il Borghese (1913) e Il Capitalismo Moderno (1902), entrambe riviste sino al termine della vita. Gli è preferito Max Weber, assai meno critico con la contemporaneità e gli viene rimproverata, con la consueta reductio ad hitlerum, una breve adesione al nazionalsocialismo, di cui fu poi critico, anzi, con le sue parole, “nemico mortale”. Un altro torto del grande prussiano sarebbe quello di aver studiato scientificamente il ruolo degli ebrei nella vita economica e nello sviluppo dello spirito che chiamiamo capitalistico. Nessun antisemitismo, anzi la vigorosa affermazione dell’importanza della componente ebraica nella cultura e nella nazione tedesca, ma il destino complicato di chi cerca la verità al di là di pregiudizi e convenienze.

L’opera di Sombart resta di fondamentale importanza e va studiata con attenzione non solo per comprendere la realtà, ma per trarne munizioni ideali per una lotta storica, culturale e metapolitica di lunga lena. Egli può essere considerato un autore anticapitalista e antiborghese, tanto che in gioventù fu chiamato il professore rosso. Strano destino per un intellettuale destinato, dopo la morte, a essere letto e studiato soprattutto da una certa destra. Poeticamente vive l’uomo, è un verso del romantico Hoederlin; forse una delle ragioni della scarsa fortuna dell’opera di Sombart presso le ultime generazioni è la sua natura anti accademica, la sua preferenza per uno studio non tassonomico, freddamente espositivo di fatti o presunti tali, avalutativo avrebbe detto il suo collega e avversario Weber, ma costituito da un approccio forte, pervaso dal calore, impregnato di passione, interessato alle fonti più varie, dalla storia alla cronaca del costume, dalla filosofia alla cultura materiale sino all’etnologia e all’antropologia culturale. Fu forse l’ultimo grande della scuola storica tedesca, che tanto ha dato a discipline come il diritto, la filosofia, l’economia, la sociologia, la scienza politica.

Il Borghese da lui descritto, protagonista della storia europea degli ultimi secoli, è l’individuo dall’”attivismo insonne”; il capitalismo, nel suo giudizio storico, nasce “dal profondo dell’anima europea”. Il rapporto tra la figura del borghese e il fenomeno capitalistico è l’architrave del pensiero del Nostro, la fiamma che ha fatto divampare l’incendio che ha cambiato il volto del nostro mondo. Nel perenne stato di insoddisfazione del borghese ritroviamo “lo spirito di Faust, lo spirito dell’irrequietezza e dell’ansia”. Quando questo rovello continuo, la tensione inesausta tra desiderio e    azione oltrepassa la pura avidità per dedicarsi a realizzare obiettivi, rintracciare risorse e capacità nasce l’impresa, ovvero sorge “lo spirito dell’impresa capitalistica”. E’ la piena, concreta realizzazione dell’anima borghese, sconfitta a partire del 1968, data di nascita di un nuovo singolare esperimento neo capitalista, antiborghese e del tutto alieno da qualunque considerazione morale.

Come Karl Marx, Sombart descrisse l’” immensa forza distruttrice di tutte le vecchie formazioni”, ma lo fece con sgomento, senza il compiacimento dell’uomo di Treviri, ammiratore del percorso distruttivo del passato intrapreso dalla borghesia. Egli mosse dal medioevo, dall’epoca dei comuni, da un’Europa attraversata da eserciti ma anche da mercanti che trasportavano lettere di credito e annotavano i loro affari su quaderni di partita doppia. L’efficacia culturale di Sombart sta nella sua capacità di scoprire, dall’alto di un’erudizione sterminata, costruita in anni di pazienti ricerche in biblioteca, le diverse espressioni dello spirito capitalistico nei vari popoli europei e poi negli Stati Uniti, la potenza nuova di cui intuì il ruolo capitale. Analizzò e portò alla luce fattori extra economici, comportamentali, la tempra morale dei singoli e il clima culturale circostante, l’importanza delle scoperte tecniche, della religione, l’organizzazione concreta dello Stato, il ruolo dei consumi di alto livello, cui dedicò un’intera opera, Lusso e capitalismo, le diverse attitudini dei popoli. Straordinaria è la sua capacità di servirsi dell’opera di grandi del passato, letterati come Daniel De Foe, e poi personalità del tipo di Benjamin Franklin, passando agevolmente dalla poliedrica figura rinascimentale di Leon Battista Alberti alla tradizione religiosa medievale britannica di Beowulf fino a citare la Voluspa, parte della saga nordica dell’Edda.

Il quadro tratteggiato da Sombart è di grande complessità, problematico e consapevole della carica eversiva dei fenomeni che studia. Nel Borghese c’è un brano iniziale che ci sembra emblematico del suo intero approccio: “l’uomo precapitalistico è l’uomo naturale, l’uomo come Dio lo ha fatto. E’ l’uomo che non si pone in equilibrio sulla testa, camminando sulle mani, ma sta saldo in terra sulle sue gambe e su esse traversa il mondo“. Crediamo che basti da solo a spiegare l’universo di Sombart, le sue preferenze e convinzioni, spiegando altresì l’ostracismo di cui è circondata da decenni la sua figura. Per analogia, ci sovviene un grande anti liberale di matrice cattolica del secolo XIX, la cui opera Sombart certamente conobbe, Donoso Cortés: “non si possono conciliare le utopie liberali con le leggi naturali della vita, con i dogmi della fede cattolica, con la stessa realtà quotidiana”.

L’utopia è diventata realtà, la natura è combattuta, negata in radice, Dio è un ipotesi del passato buio, infanzia dell’umanità. Vince non tanto il weberiano disincanto del mondo, ma l’inesausta sete di accumulo, cambiamento, il materialismo dialettico.  L’opera di Sombart dà conto di cambiamenti epocali dell’anima europea, studiati in ogni loro componente, smascherando magistralmente motivazioni, moventi e fini di un fenomeno, il capitalismo, il cui spirito si è realizzato attraverso un particolare tipo umano, il borghese divenuto prima mercante, poi imprenditore. Secondo alcuni, il limite della trattazione sombartiana sta nella natura intuitivo-artistica di molte pagine, tanto lontane dalla seriosità un po’ grigia di altri studiosi. Al contrario, proprio lì risiede il fascino della limpida prosa del professore di Ersleben, che, nell’autunno della vita e in mezzo alla tempesta nazionalsocialista trovò modo di scrivere un testo di antropologia culturale, Von Menschen (A proposito dell’uomo), in cui smontò i presupposti del razzismo biologico. Non fu senza significato il titolo Metafisica del capitalismo di una sua raccolta di scritti pubblicata da una piccola casa editrice anticonformista, che abbiamo posto come titolo delle presenti note.

Il nucleo centrale della sua opera resta la scoperta della relazione tra i rapporti di produzione di tipo capitalistico e la società moderna, concepita come realtà globale composta di struttura, cultura, personalità, motivazioni e valori. Esiste una sorprendente convergenza tra Sombart, Marx e Max Weber sul terreno delle contraddizioni strutturali e funzionali del capitalismo e più ancora nella scoperta della burocratizzazione dei rapporti sociali e della vita che si colloca al di là del capitalismo e del suo avversario di ieri, il socialismo, investendoli entrambi. Ciò che determina l’originalità sombartiana è piuttosto l’insistenza sullo “spirito” del capitalismo, ovvero l’analisi sinottica delle mentalità, dei valori, orientamenti e condotte alla base del fenomeno.

La gelida indole dello scienziato sociale cede volentieri al poeta della civiltà, allorché afferma che il capitalismo è nato dal profondo dell’anima europea. Era, per così dire, iscritto in taluni principi che il tempo e le circostanze hanno portato alla luce. Così prosegue: lo stesso spirito da cui è sorta la nuova scienza e la nuova tecnica, crea anche la nuova vita economica. Si tratta di uno spirito terreno e mondano, uno spirito che dispone di un’immensa forza distruttrice di tutte le formazioni naturali, dei vecchi legami, delle antiche barriere, ma forte anche perché capace di costruire nuove forme di vita, nuove creazioni, artistiche e artificiali. Uno spirito, appunto, un “geist” di lungo periodo, che è il medesimo di Faust, “lo spirito dell’irrequietezza, dell’ansia che anima ora gli uomini. Questo stesso spirito comincia a dominare anche nella vita economica. Esso spezza le barriere dell’economia tendente alla copertura del bisogno, fondata sulla moderazione e l’equilibrio, statica, artigianale e feudale e sospinge gli uomini nel vortice dell’economia acquisitiva.”.

A differenza di Weber, che ricostruisce freddamente i nessi del capitalismo sezionato con il bisturi del patologo sociale, Sombart esprime una netta condanna morale, poiché, accanto allo spirito innovativo, vede svilupparsi e vincere il principio materiale, lo “spirito borghese”, dedito a ordinare e conservare ciò che l’animus imprenditoriale guadagna e conquista. Grande è la divergenza con Weber anche nel giudizio sulle radici religiose. Se per Weber il ruolo innovatore è legato all’etica protestantica, che santifica il lavoro come vocazione (beruf), esso è al contrario per il prussiano un fattore involutivo per la sua insistenza su ascesi e sacrificio, eccetto il calvinismo nelle sue versioni ginevrina e scozzese. Per Sombart è invece il cattolicesimo, per il tramite del tomismo, a meglio interpretare la tendenza al guadagno puramente mondana, pur nella cornice aristotelica della condanna dell’usura (crematistica).

Al di là delle polemiche, la grande intuizione dell’ex professore rosso è stata quella di aver mostrato e compreso i limiti di una società altamente progredita dal vista tecnico, ma incerta, divisa egoisticamente e priva di mete ultime.  Molto interessante è una riflessione di Sombart che muove dalla critica al marxismo, ma può essere letta oggi in chiave anti liberale: “Comincerò la mia critica con l’esame di quelle teorie che sono false perché i loro autori […] credevano di porre tesi scientificamente dimostrabili e proponevano invece un sistema metafisico. Pongo fra questi quasi l’intera filosofia della storia di Karl Marx: il suo naturalismo sociale, la sua concezione materialistica (economica) della storia, il suo evoluzionismo. Non corrisponde certo ad un dato dell’esperienza che la storia umana sia una parte della storia naturale e che sia dominata da leggi naturali. L’esperienza anzi dimostra l’autonomia irriducibile delle leggi dello spirito e delle sue creazioni. L’esperienza ci insegna che gli uomini hanno la capacità di decidersi liberamente e di entrare o no con piena coscienza in rapporti collettivi di produzione. L’esperienza ci dice che non sono sempre gli interessi economici, ma più spesso altri interessi – religiosi, politici – che tengono il primato nella storia”.

Oggi siamo al triste trionfo di un principio assurdo e antistorico. Affermano che “non c’è alternativa”, acronimo TINA (there is no alternative) al presente stato di cose. Il liberismo economico sarebbe un dato di natura, la presenza umana nel mondo avrebbe come scopo lo scambio di beni sul mercato, unico ambiente “razionale” e quindi autenticamente umano. Una follia.

                                                                          Parte II

                                                             Spirito del capitalismo.  

Il Capitalismo Moderno fu pubblicato nel 1902 ed è forse l’unico tentativo di leggere lo sviluppo storico dell’economia in modo sistematico, seguito in parte solo dalla scuola francese della “longue durée” (Fernand Braudel, Annales) e più di recente dal neomarxista Wallerstein. Le classi di fattori che egli rintraccia nella genesi del capitalismo per isolarne lo spirito sono di tre tipi: basi biologiche, ovvero eventuali speciali inclinazioni o predisposizioni di certi popoli e talune comunità; forze morali, come la filosofia, in particolare l’utilitarismo e le religioni favorevoli allo sviluppo di particolari mentalità ( giudaismo, cattolicesimo e protestantesimo calvinista) ; condizioni sociali, ovvero l’organizzazione degli Stati, le migrazioni, la scoperta di metalli preziosi, l’influenza moltiplicatrice della tecnica, il commercio e il prestito di denaro.

 

A questi elementi va associato un elemento psicologico che è forse il primo a riconoscere come movente, l’invidia sociale, sostegno e motore della pseudo morale borghese, trasferita poi come risentimento (ressentiment) nella forma mentis proletaria, leva del marxismo politico. In più, attribuisce un ruolo centrale al lusso, al desiderio di esibizione ed ostentazione, tanto da farne il soggetto di un trattato, Lusso e capitalismo, del 1938. Una delle sue maggiori intuizioni riguarda l’originale teoria sugli stranieri: la migrazione sviluppa lo spirito capitalistico in quanto spezza tutti i legami, interrompe le abitudini e chiude tutti i vecchi rapporti. Nello straniero gli interessi materiali acquistano la supremazia su tutti gli altri. Questa parte del pensiero sombartiano ha attirato accuse e violente contrapposizioni, specie in relazione all’antisemitismo di cui sarebbe impregnato il suo saggio Gli ebrei e la vita economica. Nulla di più lontano dalle intenzioni. Fece giustizia il grande storico di origine israelita George L. Mosse: “Sombart non pronunciava, nei confronti degli ebrei, un giudizio di condanna: la sua intenzione era quella di fornire un’analisi storica dell’evoluzione del capitalismo. Autori e propagandisti nazional-patriottici seppero prontamente utilizzarne l’opera, piegandola ai propri fini.”.

 

Come sostiene Franco Ferrarotti, è di capitale importanza nell’opera di Sombart distinguere la genesi del capitalismo e quella dello spirito che lo anima. Non vi è un’origine economica, ma anche economica; non un’influenza esclusivamente religiosa e culturale, bensì una costellazione di concause da individuare, senza pretendere di fornire una gerarchia o tantomeno, una causa madre, causa causans. Essenziale è una pagina del Capitalismo moderno: “al centro di ogni interesse e di ogni cura, prima del capitalismo, c’è l’uomo vivo. Egli è la misura di tutte le cose: in tal modo è già definita la posizione dell’uomo nei confronti dell’economia: questa deve servire come tutte la altre opere dell’uomo ai fini dell’uomo. Da questa concezione discende che il punto di partenza di ogni attività economica è il bisogno dell’uomo, cioè il suo bisogno di beni. Tanti beni devono venir prodotti quanti egli ne consuma. (…) Chiamo questa forma economia di erogazione.”

 

Gli uomini, beninteso, hanno sempre esercitato un’attività economica, non per soddisfare bisogni naturali, ma per puntare al guadagno (principio acquisitivo) e alcuni hanno tentato in ogni tempo di procurarsi quanti più beni possibile attraverso la tecnica, ossia l’uso di mezzi razionali, e l’organizzazione. Tutto ciò è tuttavia insufficiente per ipotizzare una mentalità capitalistica. Nell’economia premoderna, quella di “erogazione”, i protagonisti puntano all’equilibrio tra quel che si spende e quel che si ottiene nella produzione di beni necessari all’uomo “vivo”. In questa forma sociale, il bisogno non è determinato soggettivamente, ma si basa su dati fissi, determinati dalla comunità o dal gruppo cui si appartiene. Il principio d’ordine è la copertura del fabbisogno anche per le produzioni di tipo artigianale e per gli scambi.

 

A Sombart preme dimostrare che, se ci sono sempre state personalità tese all’accrescimento ed alla ricchezza, esse costituivano l’eccezione nel modo di vita anteriore al capitalismo, poiché l’impulso all’arricchimento fu per lungo tempo estraneo all’economia, intesa in senso aristotelico. Un brano dello Spirito del capitalismo afferma che “neppure la ricchezza in denaro contante serve a fini economici, alla sussistenza provvede l’oikòs, mentre la ricchezza è adatta soltanto ad un uso extraeconomico, immorale. Ogni economia ha limiti e misura che il guadagno invece non conosce”. La conseguenza è un rapporto ancora qualitativo, financo affettivo con i beni. Non si producono valori di scambio determinati quantitativamente, ma beni di consumo differenziati per qualità. Non si guarda ancora all’efficienza complessiva, né si fa troppo caso al tempo impiegato. Il tempo del lavoro è intervallato da numerosi giorni di festa scanditi dalla tradizione religiosa.

 

Il segno fondamentale della vecchia società era la stabilità, la sequela dei ritmi naturali delle stagioni e della vita, non si amavano le innovazioni, accolte con lentezza, spesso con diffidenza. Questa descrizione, che agli occhi moderni appare negativa, soffocante, collide con il nascente capitalismo, le cui basi sono opposte. Le sue caratteristiche sono quelle di “una organizzazione economica di scambio, in cui collaborano, uniti dal mercato, due diversi gruppi di popolazione, i proprietari dei mezzi di produzione, che contemporaneamente hanno la direzione e costituiscono i soggetti economici, e i lavoratori nullatenenti (come soggetti economici), e che è dominata dal principio del profitto e dal razionalismo economico”. Gli obiettivi perseguiti diventano il profitto e la razionalità economica che prendono il posto della copertura del fabbisogno e dei modi di vita tradizionali. Lo scopo dell’agire economico è l’aumento del denaro disponibile, obiettivo immanente all’idea di organizzazione capitalistica, e suo “scopo oggettivo”.

 

Evidentemente il Nostro ha capito la lezione di Marx, per il quale il capitalismo (anzi il “modo di produzione capitalista”) si contraddistingue per l’accumulazione di “lavoro morto” (ovvero di denaro) del tutto indifferente ai suoi mezzi. La formula di San Tommaso d’Aquino è rovesciata, il fine ultimo dell’economia non è più vivere bene all’interno del proprio rango sociale, ma creare valore, in linea di principio indefinito ed illimitato. Il valore per il capitalismo non è dettato da una struttura antecedente o dalla parola di Dio, è una forma sociale, un modo di dissolvere le differenze dalla forte valenza antitradizionale che si unifica nella metafisica rovesciata del denaro misura di tutte le cose.  La finalità dell’agire diventa creare la massima quantità di valore, cioè di denaro.

 

Sombart prosegue analizzando l’azienda capitalistica, ovvero l’unità organizzativa del modo di produzione dell’imprenditore, anticipando temi che verranno approfonditi da Joseph Schumpeter. Poi tratta il capitale, che “comincia e finisce in forma di denaro”. Lo scopo delle imprese è ormai la “valorizzazione”, non la produzione di beni d’uso. La creazione di maggiore valore si ottiene accelerando il processo di produzione, aumentando i prezzi di vendita o riducendo i costi. E’ evidente il debito e il dialogo a distanza con un altro grande dell’epoca, Georg Simmel, autore di Filosofia del denaro. In tale opera Simmel mise in evidenza gli effetti culturali e sociali provocati dallo sviluppo e dallo scambio economico fondato sul denaro. Il denaro è la migliore dimostrazione del carattere simbolico del sociale, l’elemento che trasforma la qualità in quantità. L’oggetto del desiderio appare svuotato di ogni altro valore. Il sacrificio, il lavoro, l’impegno che siamo disposti a compiere per ottenerlo perde qualsiasi diversa unità di misura. Quando il valore diventa denaro, l’oggetto difficilmente può essere raggiunto, e non si riesce più ad afferrare il nesso tra valore e desiderio, in quanto il primo viene oggettivato nel prezzo di mercato. Ciò comporta profondi scompensi della società, producendo qualcosa di assai simile all’alienazione descritta da Karl Marx.

 

Il nuovo mondo, sorto dal profondo della civiltà europea, abbatte le vecchie barriere e diventa capace di creare nuove forme di vita, quasi sempre artificiali. Lo spirito crescente estirpa i vincoli organici che legavano gli uomini alle comunità di appartenenza, gettandoli “sulla via dell’egoismo insaziabile e dell’autodeterminazione”. Su tale punto ci sono nessi comuni ad alcune idee sviluppate da Herbert Marcuse nell’ Uomo a una dimensione, prigioniero del “feticismo delle forze produttive”. Lo Spirito del capitalismo fu oggetto di ristampe e rimaneggiamenti sino al 1925, tre anni dopo la nascita della scuola di Francoforte.

 

 

Lo spirito descritto da Sombart è, lo accennavamo all’inizio, è quello di Faust, teso all’irrequietezza, all’ansia febbrile; un’aspirazione all’infinito, all’immenso che si fa volontà di potenza. Così la descrive: “dal più profondo dell’anima, dove la nostra mente è incapace di penetrare, scaturisce quell’indescrivibile spinta dell’uomo forte ad imporsi, a sottomettere gli altri alla sua volontà ed alle sue azioni, che noi possiamo definire volontà di potere. Oppure spirito d’intrapresa. Sono essi, quindi, gli intraprendenti, che conquistano il mondo, i creatori, i vivi, i non-contemplativi, i non-gaudenti, coloro che non fuggono e non negano il mondo. Che si fanno largo combattendo.”

 

Si apre la “caccia al denaro, a questo simbolo di valore assolutamente astratto, esente da qualsiasi limitazione organico-naturale, il cui possesso rappresenta sempre più un simbolo di potere”. In tale astrattezza di scopo emergono l’illimitatezza, ed insieme “il superamento della concretezza, di tutti gli scopi individuali”. È il punto in cui convergono tutte le ragioni sombartiane di opposizione al capitalismo: l’illimitatezza è per lui astrazione, oltrepassa la vita concreta dell’uomo e i suoi scopi. L’autonomia che il capitalismo promette, e la modernità individualista realizza, è un inganno. Permane un unico fine, la crescita del “valore”, che riduce ogni cosa e l’umanità stessa a mezzo di quell’obiettivo dissennato. Lo spirito capitalistico si riunisce così in uno “stato d’animo risultante dalla fusione in un tutto unico dello spirito imprenditoriale e dello spirito borghese”.

 

Prevale il rapporto di lavoro salariato, che domina la forma economica capitalistica dal suo inizio, determinando l’abbandono delle campagne e contribuendo allo sviluppo dell’uomo metropolitano studiato con tanta acutezza da Simmel. Nei due gruppi contrapposti, imprenditori e nullatenenti salariati, domina un unico principio, “la volontà di regolare il rapporto di lavoro in vista del massimo profitto o del massimo salario”. Enormi masse umane vengono costrette alla dissoluzione progressiva delle comunità di villaggio e distolte dalle abitudini di lavoro tradizionali, considerate altrettanti ostacoli al progresso tecnico ed alla razionalizzazione. La crescita dell’intensità produttiva, l’introduzione di macchine portarono all’abbandono del vecchio sistema dei diritti di partecipazione in favore del salario, unica “espressione razionale del rapporto di lavoro capitalistico-proletario”. Si fuoriesce da un lunghissimo passato e si entra nel nuovo spirito individualistico che abbatte la comunità domestica, proiettando ampi strati di popolazione in un imponente processo di mercatizzazione di se stessi.

 

“Una gran parte della popolazione rurale, in passato organicamente cresciuta nell’agricoltura e legata alla terra, si sradica, diventa mobile come la sabbia” Su questo punto, Sombart utilizza una formula di profonda suggestione, descrivendo il dramma di massa che sbocca nel modo di produzione e nella disciplina della fabbrica come “uno di quei meravigliosi sistemi di relazioni di superiorità, inferiorità e adiacenza, queste strutture artefatte composte da frammenti di uomini”. Avanza imperiosa una nuova organizzazione economica che non ha bisogno di uomini o donne, ma di segmenti umani, “esseri senz’anima, spersonalizzati capaci di essere membri o meglio piccole ruote di un intricato meccanismo” che comporta la perdita definitiva della libertà individuale, la rinuncia “alla sua antica prerogativa di fermarsi quando vuole, perché altrimenti getterebbe l’intero stabilimento nel disordine’”. Occorre orientare tutti i pensieri al guadagno, quindi al denaro, “all’allargamento della propria esistenza materiale”. A tal fine bisogna accettare le condizioni necessarie per ottenerlo, calcolo della produttività, rigidi regolamenti, disciplina, parcellizzazione del lavoro.

 

Nelle conclusioni Sombart si addentra in molte previsioni, immaginando – errore o speranza caduta? – una trasformazione del capitalismo in direzione di un’economia mista e cooperativa. Nei primi trent’anni del dopoguerra, i cosiddetti “trenta gloriosi” l’idea fu effettivamente realizzata nelle forme del compromesso socialdemocratico e cristiano sociale. Prese atto dell’impossibilità, per la pressione demografica e gli interessi in ballo, di un ritorno alle forme precapitalistiche. Non credette all’esaurimento rapido delle risorse materiali; fa anzi menzione di un dibattito con Max Weber, che sperava nel declino attraverso la rarefazione dei mezzi impiegati. Sombart fu tra i primi a capire che la volontà di potenza unita alla tecnica avrebbe indotto lo spirito del capitalismo a sfruttare senza posa “l’energia idrica, l’energia delle maree e del moto ondoso, l’energia solare” ed anche il riciclo dei materiali.

 

Si aspettava vanamente, come l’ultimo Schumpeter, che il capitalismo perdesse la sua posizione predominante perché soggetto a sempre più limitazioni dalle pressioni esterne, previsione dissolta dall’imponente svolta neoliberale impressa a partire dagli anni 80 del XX secolo. Il teorico dello spirito capitalistico, prolungamento dell’anima europea, comprese altresì che l’aumento della popolazione e l’influenza dell’Occidente lo avrebbero esteso alle altre razze, ciascuna delle quali con il suo particolare modo di essere. Ci sarà “il capitalismo dei cinesi, dei malesi, dei negri” che si svilupperà a misura di ciascuna civiltà rimanendo se stesso. Un’altra previsione riguardò una sorta di economia in bottiglia spinta dagli “strati sociali interessati alla sua realizzazione, i lavoratori, così come i consumatori più poveri che vogliono liberarsi delle catene del capitalismo”, ma la svolta neoliberale, aiutata dall’allargamento del capitalismo nel contesto della decolonizzazione ha travolto anche questa possibilità. Ogni economia razionalizzata, socialista o capitalista, appare a Sombart una triste alternativa. In entrambi i casi significa essere “cotti in padella o alla brace”, giacché tutto il meccanismo si fonda sul processo di spersonalizzazione: le condizioni di lavoro sono analoghe, l’orario di lavoro identico, dipendente dalle condizioni economiche generali, non dalla proprietà dei mezzi di produzione e, più modernamente, dalla composizione della compagine azionaria.

 

La domanda centrale di Sombart è se nel futuro l’uomo sarà dominato dalla tecnica o dalla persona. In questo senso, come Spengler e certi russi, sperava in una rinascita dell’agricoltura, ovvero del modello di vita rurale, comunitaria, conviviale secondo il lessico di Illich, non assoggettata all’imperio del denaro. Il neocapitalismo globalista svilisce continuamente il lavoro remunerato sotto la spinta dell’innovazione. Il processo si va intensificando ed interesserà migliaia di figure professionali e una massa sterminata di esseri umani entro pochi anni, con la robotizzazione avanzante. Gran parte dell’umanità diventerà superflua, un esercito di inutili, una riserva in vana attesa di essere riassorbita e inserita in un progetto di società. La sostituzione delle menti e non solo delle braccia rende più inquietante tale prospettiva.

 

L’opera di Werner Sombart va dunque riletta come il più ampio, acuto e completo tentativo di riumanizzare l’anima europea, ricostruendo sotto il profilo metastorico, culturale e civile lo spirito capitalistico che ha prima pervaso, poi travolto, infine dissolto, la civiltà comune. Nel passato non si può tornare, ma se ne può trarre partito per non ricadere nel più grande errore degli ultimi secoli: la disumanizzazione della vita in nome del regno della quantità divenuto fondale unico dell’esistenza, spacciato per dato di natura dai due grandi materialismi, quello collettivista e quello liberale.

 

                                                                Parte III

 

                                                               Il Borghese

 

Se Il Capitalismo Moderno è l’opera più imponente di Sombart e Gli Ebrei e la vita economica quella che ha procurato maggiori problemi alla fama postuma del professore di Ersleben, Il Borghese è la più suggestiva. Le due opere maggiori non possono essere comprese l’una senza il supporto dell’altra. Tanto Il Capitalismo moderno analizza la progressiva vittoria di un mondo nuovo, gli “spiriti animali” di Joseph Schumpeter – i cui contatti con Sombart furono frequenti– quanto il Borghese analizza un tipo umano, una mentalità manifestatasi nel tempo tesa all’ordine, alla continuità, alla misura materiale, alla contabilità e alla partita doppia estesa ad ogni ambito della vita. E’ la forma mentis che ha improntato le nostre società sino a dopo il 1968, la rivoluzione incruenta che ha prodotto il neocapitalismo iper individualista ed anti borghese. Interessante è il parallelo con l’opera di Bertrand de Jouvenel Il Potere (1942), nella parte in cui esamina la progressiva smobilitazione dell’Europa moderna, paragonata alla demilitarizzazione dell’impero romano, privato progressivamente della tempra e della volontà di opporsi ai popoli giovani che avanzavano. Uguale, per Jouvenel, sulle piste inaugurate dalla Scienza Nuova del Vico, è la marcia dei popoli europei sulla via dell’incivilimento “borghese” che svuota e riduce tutto a materia, tornaconto, calcolo.

 

Il tipo borghese ne è il simbolo e Sombart fu colui che meglio ne colse ogni risvolto, con l’ausilio di una scrittura brillante, le risorse di una cultura vasta e multidisciplinare fondata sul primato della storia. Sorprendente, in un’opera scientifica, è il ricorso a citazioni di poesia e letteratura popolare per sostenere le tesi presentate. L’amore per il denaro, ad esempio, sempre presente nell’uomo, ma poco popolare nella cultura “alta”, viene mostrato in opere come il Liber familiae di Leon Battista Alberti e in un antico poema olandese in cui l’Io narrante è l’avidità di denaro. Assai citata da Sombart è l’opera storico economica di uno scrittore inglese, Daniel Defoe, famoso per Robinson Crusoe, romanzo del soggettivismo, storia dell’uomo solo che affronta il destino. Trova spazio nel Borghese persino Cagliostro, l’avventuriero e alchimista siciliano, insieme con l’analisi psicologica degli usurai, la mania del gioco, che a suo avviso “notevolmente contribuì al sorgere dello spirito capitalistico.”

 

L’animus borghese produsse la Borsa e follie di massa come la bolla finanziaria dei tulipani in Olanda nella prima parte del secolo XVII, nonché il primo schema truffaldino a piramide inventato da John Law che mise in ginocchio la Francia attorno al 1720. Non manca un accenno alla pirateria come impresa precapitalistica sostenuta dallo Stato, specie in Inghilterra; su tutto domina il febbrile attivismo di Faust. Nei versi di Goethe si esprime il grido dell’animo teso all’impresa: “in me risplende chiara luce; quanto ho pensato mi affretto a compierlo. Su dal giaciglio, servi! Subito bisogna eseguire quel che è segnato. “In luogo della costrizione materiale, il nuovo tipo umano – borghese e imprenditore- pone come forza motrice il desiderio, inventa per se stesso e gli altri una nuova potenza, la suggestione.

 

Espressione letteraria di queste personalità mai viste, potenti, determinate, prive di scrupoli morali è il personaggio di Saccard, lo speculatore disegnato da Emile Zola nel Denaro, che immagina di cambiare la realtà senza limiti attraverso l’azione volta all’arricchimento. “La marcia in avanti, il bisogno di agire, di andare oltre se stesso, senza sapere dove si va, ma andare avanti a proprio agio, nelle condizioni migliori: e il globo rovesciato dal formicaio che rifà la sua casa, e il continuo lavoro, nuovi godimenti conquistati, il potere dell’uomo decuplicato, la terra che gli appartiene ogni giorno di più. Il denaro, aiutando la scienza, fa il progresso”. Attraverso Zola, Sombart descrive l’uomo senza limiti, l’individuo assoluto perché sciolto da ogni vincolo.

 

Oltre le personalità individuali, esistono popolazioni più portate a unire lo spirito capitalistico alla mente borghese. Innanzitutto i fiorentini, gran mercanti, popolo di terra poco attratto dalle conquiste marittime (Sombart condivideva le tesi di Carl Schmitt sul dualismo permanente terra-mare), scarsamente dotato di virtù militari, ma straordinariamente capace di organizzare tecnicamente l’economia mercantile e la finanza. Non è senza ragione che i Medici siano l’unico caso nella storia di banchieri divenuti re e che la cultura cattolica abbia prodotto a Firenze e in Toscana l’opera ordinatrice di santi come Antonino da Firenze e Bernardino da Siena. Lo spirito borghese e capitalistico ha avuto uno sviluppo eccezionale nella Scozia calvinista delle Lowlands, con la prima scuola organizzata di economisti – lo stesso Adam Smith era scozzese – un popolo che nel secolo XVII vendette all’Inghilterra per denaro contante il re Carlo Stuart.

 

Immensa è l’importanza del ruolo degli ebrei, costretti dalle limitazioni che subivano quasi ovunque ad esercitare attività finanziarie, consentite dal famoso passo del Deuteronomio (23- 20,21) “Non farai al tuo fratello prestiti a interesse, né di denaro, né di viveri, né di qualunque cosa che si presta a interesse.  Allo straniero potrai prestare a interesse, ma non al tuo fratello, perché il Signore tuo Dio ti benedica in tutto ciò a cui metterai mano, nel paese di cui stai per andare a prender possesso.”

 

L’approccio storico di Sombart raggiunge il suo culmine nella descrizione del borghese per antonomasia, l’americano Benjamin Franklin. Per l’austero puritano il tempo è denaro, l’onestà è la migliore politica soprattutto in quanto consente la stima negli affari, la giornata va divisa in tempi regolari da utilizzare nelle varie attività senza sprecare un attimo. Questa avarizia di tempo, il senso acuto della sua scarsità è un’intuizione forte di Sombart, destinata a spiegare molto della contemporaneità, schiacciata sul presente sino all’invenzione del tempo reale, l’attimo non più fuggente, ma cristallizzato nella risposta binaria immediata aperto /chiuso, sì/no degli apparati tecnologici senza i quali non sappiamo esistere.

 

Il borghese è conformista per vocazione e interesse, mai per profonda convinzione, giacché è pronto a cambiare i suoi valori al seguito della società e soprattutto del mercato. Lo spirito borghese sorse in Italia e si perfezionò in Olanda nel secolo XVII, attraverso l’operosità, ma anche l’esaltazione delle arti mercantili e delle virtù economiche, la completa razionalizzazione della vita di un popolo che abbandonava progressivamente la sua tradizione di navigatori esperti e coraggiosi guerrieri. Ancora nel XVIII secolo, all’inizio della prima rivoluzione industriale, erano considerati indecorosi gli eccessi di pubblicità e la tendenza al ribasso dei prezzi per motivi di concorrenza. L’autore di un testo assai popolare dell’epoca, Il perfetto mercante inglese, farebbe strabuzzare gli occhi ai moderni per l’opposizione a innovazioni commerciali e ad economie di scala che avrebbero tolto il lavoro a molte persone e messo in crisi mestieri e professioni. Analoghe riflessioni animarono il re Federico di Prussia.

 

A cavallo tra XVIII e XIX secolo lo spirito cambia, il vento muta direzione rovesciando i valori di riferimento. Scrive Sombart: “L’uomo vivo, con il suo bene e il suo male, è stato respinto dal centro dell’interesse, e il suo posto è stato preso da un paio di astrazioni, il guadagno e l’affare. L’uomo ha cessato di essere quello che era rimasto fino alla fine dell’era paleocapitalistica, la misura di tutte le cose “. La natura antiumana dello spirito capitalistico non poteva essere rivelata con maggiore chiarezza, unita alla spinta ad ingrandirsi, aumentare, travolgere limiti, attraversare frontiere. Vi è in ciò quasi una costrizione psichica svelata dalle memorie di capitani d’industria come il magnate americano dell’acciaio Andrew Carnegie e il primo Rockefeller. Carnegie ammise che sperava sempre di non aver bisogno di ingrandirsi, ma che non farlo avrebbe significato compiere un passo indietro. Un fatto impossibile per il nuovo spirito, che Rockefeller spiegava con il desiderio di riunire aziende e capitali per formarne sempre di nuove, più grandi, più ricche, in grado di reinvestire continuamente i capitali.

 

Una constatazione significativa rimanda al mondo della fanciullezza. L’imprenditore moderno, e con lui l’uomo dei tempi nuovi, è una specie di bambino. Il suo mondo, come quello infantile, è fatto di grandezze materiali, di rapidità nei movimenti, come la corsa o far girare la trottola; è affascinato dalla novità: getta il giocattolo vecchio alla semplice vista del nuovo e manifesta senso di onnipotenza e spiccato egoismo. L’indagine psicologica è fine e ci proietta nel regno della quantità, la cui compiuta espressione si raggiunge negli Stati Uniti. Laggiù, osservò già un secolo fa il Sombart, si fanno pochi complimenti e il prezzo di costo, ovvero il valore di scambio, si pone semplicemente accanto alla cosa che si stima, trasformata in grandezza pesabile e misurabile. Un quadro di Rembrandt vale per il suo prezzo e non per il valore artistico, la quantità misurata in denaro diventa l’indizio unico del successo, da conseguire- altra novità- con rapidità e senza riguardo ai mezzi impiegati.

 

Si sviluppa un’attitudine di “mobilità spirituale”, non soltanto per cogliere il momento giusto di un’azione (il kairòs dei greci) ma anche per esercitare una particolare forma di fantasia pratica che un padre della psicologia, Wilhelm Wundt, chiamò “kombinatorisch”, in opposizione alla fantasia intuitiva dell’artista. Il borghese teso all’accrescimento va per il mondo intento a ordinare e calcolare. Rockefeller si vantava di aver tenuto sin dall’infanzia un libriccino in cui annotava diligentemente entrate e uscite. Sombart non ha dubbi: imbevuto dello spirito di Goethe, parteggia per Wilhelm Meister, che “parla come uno che regala regni”, contro il suo amico Werner, il cui dire “si addice a una persona che raccoglie spilli”. Curiosamente, uno degli esempi portati da Adam Smith per celebrare la nascente economia capitalista fondata sulla divisione del lavoro, riguarda un fabbricante di spilli!

 

Lo spirito pratico, metodico, mercantile, è più vivo in alcune popolazioni che in altre, pur se le spiegazioni di Sombart non sono di natura biologica, ma storico culturale. Egli nota che i fiorentini popolani cacciarono gli aristocratici dall’amministrazione civica fin dal remoto 1292 e diventarono così la prima città borghese del mondo. Analogo il comportamento degli scozzesi delle terre basse fin dal XV secolo. Esiste dunque, accanto allo spirito, una filosofia borghese orientata al capitalismo? La risposta di Sombart è positiva. Prima del trionfo dell’utilitarismo britannico di Jeremy Bentham, la costante ansia di razionalizzare ogni cosa, tutto calcolare per regolare la vita in perfetta economia di tempo, azione, denaro, ebbe antichi progenitori nel pensiero degli Stoici latini, come Seneca e l’imperatore filosofo Marco Aurelio, oltreché, bizzarra unione di diversi scoperta dall’erudito Sombart, negli scrittori di res rusticae, agricoltura, come Catone e Columella. Vi sarebbe dunque, nello spirito borghese, una lontana ascendenza romana, di cui sarebbero indizi sentenze di poeti come Lucrezio (la più grande ricchezza sta nel risparmiare) e Ovidio (non è virtù minore conservare ciò che si ha che guadagnare del nuovo).

 

Ampia è la riflessione sombartiana sulle influenze religiose e il ruolo delle migrazioni nello sviluppo dello spirito capitalistico. Differenziandosi profondamente da Max Weber, egli nega l’influenza preponderante della riforma protestante sulla nascita dello spirito borghese e della mentalità capitalista. E’ vero che “il Dio di Calvino e di John Knox era un Dio terribile, il Dio del terrore, un boia” e la teoria della predestinazione avrebbe dovuto, in teoria, bloccare l’attivismo umano dei devoti, ma sfuggì al Nostro, che pure era protestante, la portata rivoluzionaria dell’individualismo introdotto da Lutero attraverso la libera interpretazione soggettiva delle Scritture. Per quanto riguarda gli Ebrei, convince un’interpretazione riferita alla prevalenza, dopo la diaspora, dell’elemento ritualistico e dell’osservanza della legge. Vale il detto di Heinrich Heine, per il quale la Torà divenne la “patria portatile” degli israeliti. L’osservanza dei precetti religiosi e il prevalente ruolo di guida dei rabbini furono all’origine della ricchezza ebraica, specie nel determinare il fine e l’efficacia della mentalità economica.

 

Per quanto concerne il cattolicesimo, gli scolastici, con la legge naturale, insegnarono l’industria, ossia l’energia contrapposta all’accidia, la frugalità e l’onestà, una “bellezza spirituale” già per Agostino, pilastri trasferiti all’incipiente homo oeconomicus. E’ dei paesi cattolici una certa tendenza alla magnificenza e al lusso, un gusto per lo splendore abbandonato dai protestanti. Eccezionalmente immaginifico è un brano del Borghese: “nell’architettura [protestante] non vi era posto per la magnificentia. Essa assomigliava al gennaio freddo, prosaico, imbiancato a calce, che aveva preso il posto del nobile duomo gotico, dalle cui variopinte finestre scendevano i raggi del sole. La principale virtù puritana fu l’opposto della magnificentia, fu quella parvificentia, spilorceria, condannata come grave peccato dagli scolastici”. Qui, oltre alla grandezza di un cuore mai rinserrato nelle anguste acquisizioni dell’algida scienza sociale, pulsa l’amore dei tedeschi colti per il Sud, conosciuto da Sombart, come da Goethe, Mommsen e altri, nei viaggi di formazione (bildung) della giovinezza.

 

Pure, le forze morali di ascendenza protestante hanno alla fine prevalso nel formare l’uomo nuovo, borghese e capitalistico, attraverso la forte vocazione al lavoro a gloria di Dio e alla progressiva giustificazione e santificazione del profitto. Di capitale rilievo è la teoria che riguarda gli stranieri e gli esuli – religiosi e politici- come portatori privilegiati dello spirito capitalistico: gli ebrei quasi dappertutto per la loro condizione di cittadini a metà, i cattolici nei paesi protestanti e viceversa, gli appartenenti a confessioni protestanti non maggioritarie negli Stati Uniti. E’ un’intuizione risalente a un economista inglese vissuto a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo, William Petty, che Sombart allarga e fa propria, affermando che sarebbe attraente scrivere un’intera storia dell’umanità riferendosi sempre e soprattutto allo straniero, al suo influsso sul corso degli avvenimenti.

 

A parte l’attualità di tale osservazione nel presente, dominato da imponenti movimenti di popolazione verso il Nord del pianeta, l’importanza degli stranieri nello sviluppo della mentalità materialistica, borghese e nella crescita del capitalismo è evidente. Emigrano, rileva Sombart, soprattutto i “tipi capitalistici”, provvisti di energia, capaci di dimenticare tradizioni e stili di vita nativi per imboccare decisamente nuove vie. Avviene una doppia selezione: resistono ed emergono i temperamenti più audaci, le tempre volitive, fredde, inclini al calcolo, meno portate al sentimento. Dopodiché si lanciano in nuove avventure, in cui si sviluppa lo spirito capitalistico nei tipi più disponibili a spezzare tutte le vecchie abitudini e gli antichi rapporti, per i quali “la parentela, la terra, il popolo, lo Stato, hanno cessato di essere una realtà”. In loro, gli interessi materiali acquistano la supremazia su tutti gli altri. E’ difficile mantenere o sviluppare la propria spiritualità in terra straniera, e il gruppo in cui vive l’emigrato non ha per lui alcun significato.

 

Tanto più vera è la tesi se riferita alla natura, l’ampiezza e le motivazioni dell’emigrazione europea verso l’America, terra promessa in cui vale solo la spinta all’arricchimento con ogni mezzo. Perfino l’immensa potenza e bellezza delle cascate del Niagara diventano per l’americano una semplice, grandiosa forza motrice idrica da imbrigliare e impiegare nell’industria. La preoccupazione fondamentale è il tempo, sempre carente, sempre declinato al futuro, mentre la normalità diventa la precarietà esistenziale, la provvisorietà della residenza, l’instabilità, il cambiamento incessante. Lo straniero non è trattenuto da alcun freno, sulla strada incontra solo estranei con i quali intrattiene relazioni pratiche, commerciali, dare e avere, trattative al posto di dialoghi, contratti anziché comunità. I prestiti a interesse, dice Shylock ad Antonio, si fanno con gli stranieri poiché soltanto da loro si può esigere senza riguardo il rimborso del capitale e il pagamento degli interessi.

 

La contemplazione del mondo diventa puramente quantitativa, rappresentata da somme, grandezze misurabili da oltrepassare come primati sportivi da abbattere. L’ansia borghese è misurare tutto. Di qui l’importanza assegnata alla tecnica, la sopravvalutazione delle cose materiali, il fanciullesco piacere per i perfezionamenti tecnici e le scoperte, il mito del progresso, i mezzi che diventano fini. Muta totalmente l’orizzonte del mondo, lo sguardo cambia obiettivo. Il commercio orienta verso un giudizio esclusivamente quantitativo. Il mercante, e dopo di lui l’imprenditore, hanno nei confronti all’oggetto delle loro attività un rapporto puramente esteriore, strumentale. Manca in loro l’amore dell’artigiano, la gelosia del contadino, la cura per l’opera del faber. Conta solo il valore di scambio, la quantità misurata in denaro. Non sbagliò Marx teorizzando la differenza profonda tra valore d’uso e valore di scambio, ma sorprende l’incomprensione del consumatore moderno – autodefinito colto e riflessivo – per il colossale inganno che subisce, attraverso la creazione e imposizione di desideri irrazionali.

 

Quel che resta dell’etica è riassunto in una morale da droghiere. Honesty is best policy, l’onestà è la migliore politica, ma perché consente di essere credibili sul mercato, mantenere una buona reputazione commerciale. E’ la stessa differenza tra l’onore, concetto verticale, il senso di sé che si specchia nel giudizio altrui e l’immagine, ovvero ciò che si vuole far conoscere di sé agli occhi della società. Vive nel mondo del borghese un’attività febbrile priva di qualità etica, alimentata da rancore e invidia per chi “ha” più di lui, il ressentiment cruciale nella formazione della coscienza collettivista della classe proletaria. Sombart è tranchant: l’astio è il sostegno più valido della morale borghese, pronta a ragionare con argomenti analoghi a quello della volpe di Esopo che non riusciva a raggiungere l’uva.

 

Il razionalismo tecnologico, infine, tende a dimenticare l’uomo. Tutto è strumento per il borghese, anche la persona umana, l’altro e qualche volta persino se stesso, mezzo per il fine unico, l’accrescimento indefinito, una ricchezza più grande (il denaro non conosce limiti). Avanza la spinta all’iperbolico, l’amore dell’eccessivo, l’impulso verso l’infinitamente grande, il determinismo dell’avanzare, sempre e comunque, che gli americani hanno oggettivato nel mito della frontiera (“vai all’Ovest, giovanotto”). Tutto scompare dall’orizzonte borghese e capitalistico, tranne “l’impresa” destinata a sostituire la religione. Non è stato il puritanesimo religioso a trascinare l’imprenditore nel vortice di una irriflessiva attività, insiste Sombart, ma il capitalismo. “E lo ha potuto fare soltanto quando fu abbattuta l’ultima barriera che impediva all’imprenditore di sprofondare verso l’abisso: il sentimento religioso. Per fare di questa insensata attività il contenuto della sua vita, ha insegnato a crearsi valori vitali nel deserto”. Lo spirito del capitalismo, di cui abbiamo seguito l’allontanamento progressivo dall’originario spirito borghese per emanciparsi da qualunque principio dopo la tempesta libertaria soggettivista del 1968, ha imboccato l’ultimo, decisivo tornante, quello della lotta contro le leggi di natura e la distruzione di tutte le differenze, distinzioni, identità che si frappongono alla sua vittoria finale, il regno globale dell’economia sul deserto.

 

Dopo aver alimentato e utilizzato la scienza naturale, nata dalle profondità dello spirito romano-germanico e resa possibile dalla tecnica; dopo aver inventato la Borsa, nella quale si poté inverare la tensione illimitata dell’attività capitalistica, aver fatto proprio l’impulso totale al guadagno, spezzato uno a uno i vincoli dei costumi, della morale, della comunità, della religione, la modernità capitalistica cresce senza più limiti. Il gigante, avverte Sombart, non arretrerà. La domanda finale è se la sua frenesia durerà in eterno. Difficile anche per l’esperto sociologo azzardare previsioni, oltre all’auspicio che “nella natura stessa dello spirito capitalistico si nasconda la tendenza che lo mina dal di dentro e lo ucciderà”. Nel frattempo, il rischio è la distruzione del creato, la rovina ambientale, l’insignificanza della persona umana, che il XXI secolo aggredisce attraverso nuovi strumenti tecnici, l’intelligenza artificiale, la robotica, la messa in discussione della biologia e di ogni legge naturale.

 

L’aggressione, vaticinava il sociologo, si sarebbe completata con il progredire della “cultura” (tra virgolette nel testo), e questo sta puntualmente accadendo. Non si è ancora manifestata in alcuna forma la speranza che Sombart, figlio della Germania, esprime nell’excipit del Borghese: “forse il gigante divenuto cieco verrà adibito a tirare il carretto della civiltà democratica. Forse sarà ancora il crepuscolo degli dei. L’oro verrà restituito al fiume Reno. Chi lo sa? “