UE Un paradiso fiscale per i tecnogiganti.

                                                      di Roberto PECCHIOLI

 

I paradisi fiscali prosperano accanto alle grandi aree economiche e finanziarie del pianeta per nascondere il denaro, schermare i nomi dei proprietari, celarne la provenienza – spesso indicibile, frutto dei traffici più immondi e criminali- ripulirlo e reinvestirlo legalmente. In più, assolvono alla funzione di evadere ed eludere le imposte, bypassando le legislazioni degli Stati. Sono, per così dire, retrobottega e sentina di un’organizzazione economica e finanziaria- quella liberal liberista- fondata sull’inganno, la prepotenza, l’aperta irrisione dei popoli, degli Stati, delle legislazioni. Alla regola non sfugge l’Unione Europea, le cui lobby non riescono a partorire uno straccio di accordo per il trattamento fiscale delle imprese multinazionali, in primis dei giganti tecnologici.

Vedremo a breve quali effetti porterà la decisione di Facebook di istituire una criptomoneta virtuale nel suo immenso circuito (Instagram, Whattsapp, Messenger, oltre a FB) sulla scia del bitcoin e avvalendosi della tecnologia di sicurezza detta blockchain. Le tecno imprese hanno ormai raggiunto il livello dello sfruttamento duro e puro, mascherato da opportunità, disintermediazione (chiaro: unici attori sono loro!) risparmio per gli utenti. Così il mercato turistico è dominato da Airbnb che non possiede immobili, quello dei trasporti da Uber che non ha un solo taxi, quello dei video da Youtube (Google) che non è un produttore di contenuti televisivi mentre il re del commercio, Amazon, non dispone di una rete fisica di vendita. E’ la smaterializzazione e deterritorializzazione, che i colossi tecnologici padroneggiano in quanto unici proprietari delle tecnologie informatiche che rendono possibile la costruzione, lo sfruttamento e il monopolio di un immenso mercato di cui essi sono il punto di incontro.

Il potere pubblico arranca accumulando ritardo culturale e legislativo, senza opporre scelte alternative per la sterminata platea degli utenti. Il denaro (elettronico) corre veloce in rete e cambia di mano con un clic, i destinatari sono i soliti, pochi iperpadroni che non pagano tasse. I popoli diventano non sudditi, ma schiavi. Comincia a diffondersi una letteratura volta a mettere in guardia, spiegare ciò che accade a ritmo incalzante. Si tratta, purtroppo, di lavori prodotti da piccoli coraggiosi editori con carenze di distribuzione. Segnaliamo il fondamentale Tecnoschiavi di Marco Della Luna (Arianna, 2019) e, più modestamente, il nostro Tecnopolis (Effepi, 2019), ai quali rimandiamo per approfondimento, certi che non otterranno mai l’attenzione dei palcoscenici mediatici.

Importante è svelare verità sgradevoli, divulgare fatti, spiegare meccanismi. Una verità scomoda è che la stessa Unione europea è un bizzarro Arlecchino di paradisi fiscali. Unificano a viva forza, impongono regole astruse uguali per tutti nei più svariati ambiti con effetti disastrosi, ma gli gnomi europei sono tacciono con chi è potente per davvero. Interi Stati hanno legislazioni finanziarie e tributarie da paradiso fiscale, con disastrosi effetti sull’Unione. Uno è il Lussemburgo, lo Stato canaglia patria di Juncker, sede delle grandi società di clearing (Euroclear e Clairstream), le camere di compensazione che permettono a banche e istituzioni finanziarie di regolare le loro transazioni e, in un gioco di illusionismo finanziario, far sparire e riapparire somme gigantesche. Poi ci sono diversi altri piccoli Stati, e, simili a cisti, i minuscoli staterelli associati ai vicini più grandi, la cui unica funzione è nascondere nei loro forzieri- o meglio in server informatici ben protetti – denaro opaco di ogni provenienza: Monaco, Andorra, in parte San Marino.

Che fa l’Europea ufficiale? Ben poco. Tuttavia, qualcosa si muove, meglio tardi che mai. Poco rilievo sta avendo in Italia il dibattito che si è aperto in seno all’UE. Una priorità del prossimo presidente della Commissione UE dovrebbe essere modificare lo stato di cose attuale, rendere accessibili certe casseforti, bonificare il terreno comune. Durante un incontro tra i candidati alla presidenza della Commissione europea, i moderatori hanno posto una domanda cruciale: quali Stati sono paradisi fiscali e come si possono cambiare le regole affinché Amazon paghi le stesse tasse del librario all’angolo della strada? Manfred Weber, popolare, si è limitato a spargere fumo, promettendo una Commissione “vicina alla gente”, mentre la liberale signora Vestager ha eluso la domanda (il termine è il più appropriato) affermando che “un paradiso fiscale è dove si pagano le imposte di legge “, acrobatica formula per rigirare la frittata. Solo il socialdemocratico belga Frans Timmermans ha proposto l’istituzione di un’imposta minima europea sulle società al 18 per cento. Ciò che è stato ammesso è che i paradisi fiscali nell’UE esistono, e non riguardano esclusivamente la pressione tributaria. L’obiettivo dovrebbe diventare far pagare il dovuto a tutti e dovunque, ma altresì costruire un sistema di regole oneste, da cui dipende in larga misura il recupero della fiducia dei cittadini.

Poiché la materia è piena di trappole, equivoci e fraintendimenti, tenteremo di spiegare, ahimè con qualche tecnicismo, uno dei mezzi più comuni utilizzati da grandi aziende per eludere le tasse, riducendole a somme risibili. Il crimine, poiché tale è, è complesso e richiede numerosi complici. Immaginiamo una società americana, la TecnoUSA, che produce software al un costo di dieci dollari e li vende in Italia a centodieci attraverso la controllata TecnoItalia. In un sistema onesto, TecnoUSA darebbe in licenza il software a TecnoItalia per 10, questa lo venderebbe per 110, guadagnando 100, meno 24 da girare al fisco per IRES, l’imposta sulle società la cui aliquota è il 24 per cento.

L’ingegneria societaria e fiscale è più o meno la seguente. Il primo passo di TecnoItalia sarà falsificare il costo di produzione per ridurre l’imponibile. A questo scopo, TecnoUsa, la matrice, fonderà una società a Bermuda o in un altro paradiso fiscale, conferendole al prezzo di costo tutti i diritti di proprietà intellettuale. TecnoBermuda decide dopo l’acquisto che il software vale molto di più e lo rivaluta come attivo da 10 a 100 dollari, senza pagare tasse in base alle leggi locali.

Il secondo passo è creare una rete aziendale in Europa per consentire il trasferimento di redditi al paradiso fiscale, sfruttando le legislazioni di alcuni Stati, ad esempio l’Irlanda. TecnoBermuda fonderà una società in Irlanda, TecnoHolding, gestita e controllata da Bermuda. Con essa non sarà conveniente operare in Europa, in quanto il fisco americano, competente sulla società madre, per quanto debba considerarla irlandese, la vedrebbe come una società “strumentale” di quella di Bermuda e le farebbe pagare le tasse negli Usa. Per evitarlo, il gioco delle tre carte non è tanto complicato: TecnoHolding costituirà a sua volata una filiale in Irlanda, TecnoEire, destinata a svolgere le operazioni in Europa. Insieme, TecnoHolding e TecnoEire costituiscono quello che viene chiamato “doppio irlandese” – non si tratta di whiskey o di birra dell’isola celtica – che permette a TecnoHolding di mantenersi in una sorta di terra di nessuno. Per gli Usa è un’impresa irlandese non strumentale che non realizza direttamente redditi e benefici. Per l’Irlanda è un’impresa estera non soggetta al fisco di Dublino, poiché ha il doppio requisito di essere gestita e controllata da Bermuda e possiede una normale filiale irlandese. A questo punto, potrà tranquillamente trasferire utili a Bermuda.

Ulteriore mossa è creare una catena di licenze di proprietà intellettuale (software) a prezzo di costo da Bermuda in Irlanda, e da lì a tutti i paesi UE. TecnoEire sarà responsabile per la vendita, ad esempio ad un’impresa italiana, al prezzo di 110, ottenendo solo un profitto di 10 (già paga alla società controllante 100 in diritti d’autore e proprietà intellettuale). Questi cento rifluiranno a Bermuda e lungo la strada si saranno costruite delle perdite. L’ imposta è del 24 per cento, quindi pagherà 2,4 su dieci.  In Irlanda, TecnoEire corrisponderà le tasse con le favorevoli aliquote locali, ma dovrà una ritenuta del 20 per cento sulle royalties incassate da TecnoHolding, impresa extracomunitaria non residente. L’ultimo passo è eliminare il problema lungo la strada. Allo scopo, basta fondare una filiale strumentale in Italia che non genera entrate e si limita a trasferire costi di servizio tecnico e attività di marketing, fatturati da TecnoEire. In questo modo, si svuota la base imponibile e l’imposta si trasferisce in Irlanda, dove l’imposta sulle società è la metà della nostra.

In parallelo, per evitare ritenute sulle royalties, TecnoHolding costituisce una seconda società in Olanda – Stato dalla secolare tradizione favorevole ai magheggi fiscali internazionali– per far passare dai Paesi Bassi la catena delle licenze dei software scambiati. TecnoEire pagherà le royalties a TecnoOlanda senza ritenute per la condizione comunitaria di entrambe. A sua volta, la società olandese le pagherà a TecnoHolding, sempre senza ritenute in ossequio alle orme dei Paesi Bassi.

L’operazione perfetta è conclusa, il doppio irlandese, con retrogusto olandese, è servito: TecnoUsa produce per 10, vende a 110 e ottiene un profitto di 100, ma paga tra l’uno e il due per cento di tasse. L’inconveniente è che il grosso dei profitti rimangono in un paradiso fiscale, ma TecnoUSA può sempre concordare un regime di rimpatrio favorevole o chiedere a TecnoBermuda un prestito molto vantaggioso del suo stesso denaro.  Quello descritto è più o meno il sistema utilizzato da Apple, Facebook, Google, Microsoft e da altri, perfettamente legale. Non hanno rubato nulla: si sono semplicemente avvalsi delle regole del sistema che, incidentalmente, è quello di cui sono i pilastri. Lo possono usare tutti, anche gli sportivi professionisti osannati dai tifosi, ma il beneficio maggiore è legato al settore tecnologico, il cui affare più profittevole riguarda le licenze e i diritti di proprietà intellettuale.

La Commissione UE ne è perfettamente consapevole, ma evita accuratamente di chiamare un proprio Stato membro paradiso fiscale, utilizzando, per descriverne la condotta, una singolare circonlocuzione (il politicamente corretto impera anche nelle stanze ovattate di Bruxelles). “Le regole tributarie di questo paese sono utilizzate dalle multinazionali impegnate in strutture di pianificazione fiscale aggressiva”. Una formula elegante, dolce come lo zucchero per descrivere la sottrazione agli Stati, cioè a noi, di miliardi e miliardi di euro trasferiti ai super ricchi a termini di legge. La definizione è inclusa nelle segnalazioni fiscali dell’Unione del biennio corrente riguardanti Cipro, Olanda, Ungheria, Irlanda, Lussemburgo e Malta, Belgio e Estonia, oltreché nelle vere e proprie accuse di “pianificazione aggressiva” mosse dal rapporto Tax3 del parlamento europeo.

Se vogliamo che l’Europa diventi un’area fiscalmente seria, si impone una riforma fiscale assai lontana dall’agenda di governi, Commissione e parlamento UE. Basti pensare all’armonizzazione dei regimi IVA, prevista per il 1997 (!!!) e mai attuata. Sarebbe sufficiente, a salvaguardia degli introiti di ciascuno e nel rispetto delle rispettive sovranità nazionali, stabilire dei minimi comuni. Qualcosa si muove, benché con lentezza e parzialità, sotto la pressione del progetto BEPS dell’Ocse e l’azione del G20. Dal 2021, finirà il “doppio irlandese” e l’Olanda inizierà a praticare ritenute sulle royalties, dopo aver ammesso che almeno il 60 per cento di tali somme finiscono nei paradisi fiscali. Intanto, inventano nuove fantasiose figure aziendali per facilitare l’elusione e vengono alla luce accordi bilaterali segreti con multinazionali oltre all’emissione di prodotti finanziari opachi, falsi piani di assicurazione o pensione che nascondono depositi ed altro.

La Commissione si limita a considerarle violazioni della concorrenza e tenta con scarsa energia di superare in materia fiscale la regola dell’unanimità degli Stati. E’ opportuno relativizzare la presunta efficienza di certi paesi UE o attribuire il loro fascino come residenza fiscale al regime tributario favorevole, ignorando l’importanza della flessibilità legislativa, cioè della spietata concorrenza intracomunitaria. Naturalmente, avere tasse ridotte e un agile sistema mercantile aiuta, ma non si deve confondere l’efficienza con l’attitudine da Stato canaglia. La chiave dell’elusione non è solo la bassa tassazione delle società di capitali, ma alcuni diffusi inganni: la falsificazione dei costi attraverso la rivalutazione di beni immateriali; la possibilità di creare ad libitum società fantasma con residenza fiscale falsa o incerta; la mancanza di controllo sulle prestazioni fatturate camuffate da diritti d’autore o licenze, oltreché la difficoltà giuridica di colpire sotto e sovrafatturazione.

L’indispensabile armonizzazione delle imposte sulle società non richiede necessariamente un’unica aliquota. E’ sufficiente un ragionevole minimo europeo per evitare una corsa al ribasso e correggere le distorsioni determinate da divergenti definizioni delle imposte e dalla variegata struttura nazionale dei sistemi tributari. Ad esempio, serve una comune definizione di società residente o non residente, un’unica normativa sulla territorialità per quanto riguarda redditi e spese, chiarire chi e perché è considerato società estera, un identico trattamento di pagamenti e prestiti tra aziende entro un gruppo, quali spese sono da considerare deducibili e come regolare il sistema delle royalties. Non può sussistere, in una Unione, una concorrenza tra legislazioni, specie in ambito tributario.

In fondo, non si chiede nulla di straordinario, se non garantire un requisito essenziale della costruzione europea, il cosiddetto acquis, ovvero il pari trattamento per costruire un campo di gioco equilibrato per la competizione, o, se preferite l’espressione anglofona, definire il principio del level playing field. Non c’è ordinata libertà di circolazione dei capitali, delle merci e soprattutto dei servizi tecnologici, senza assunzione di responsabilità.

Il compito del prossimo presidente della Commissione è, in questa direzione, enorme. Occorrono apertura mentale, generosità da parte dei Paesi il cui comportamento lede tutti gli altri, ma innanzitutto la volontà di opporre la forza del potere sovrano pubblico che procede dai popoli all’arroganza dei giganti privati. Non c’è da essere ottimisti, se dopo anni di trattative le oligarchie europee e i governi non riescono neppure a trovare un accordo per un’imposta minima del 3 per cento a carico dei tecnogiganti, delle piattaforme digitali e del commercio online. Ogni soluzione non sarà che un pannicello caldo se non si avrà il coraggio di uscire dal paradigma privatistico neoliberista: ardire di essere illiberali a partire dalle regole tributarie.

Persone fisiche, pensionati, lavoratori precari, piccole e medie imprese, partite IVA vere o obbligate pagano molto, molto di più di Facebook, Amazon, Airbnb, Apple e tecno compagnia. Probabilmente Cristiano Ronaldo riceve dal fisco un trattamento migliore dei tifosi che indossano la costosa maglietta con il suo nome.  A loro e a tutti noi non è concesso trattare con l’Unione, formare caroselli di società, risiedere fiscalmente in isole lontane. Produttori di tutto il mondo, unitevi contro la finanza e contro Tecnopolis.