L’UE E IL DIRITTO D’AUTORE. LA CENSURA DELLA RETE.

                                                               di Roberto PECCHIOLI

La direttiva dell’UE sul diritto d’autore è stata approvata dal Parlamento europeo con 348 voti a favore, 274 contrari e 36 astenuti. Una volta di più le istituzioni comunitarie si sono dimostrate nemiche della libertà concreta dei cittadini e spudorati servitori dei grandi gruppi di interesse. Non stupisce l’impegno dei grandi raggruppamenti politici – popolari, socialisti, liberali – a favore della nuova normativa, tantomeno l’unanime entusiasmo della cosidddetta “grande stampa”, i cui editori sono i maggiori beneficiari della nuova normativa.

E’ bene rammentare che le direttive dell’UE non diventano subito legge degli Stati membri, ai quali è lasciato un tempo per adeguare le rispettive legislazioni. L’opposizione compatta alla direttiva di Lega e Cinque Stelle, oltre a quella di diversi esponenti di altro orientamento, lascia qualche debole spiraglio di speranza nel Parlamento italiano.

Ha ragione Julia Reda, deputata tedesca del movimento dei Pirati, animatrice dell’opposizione alla normativa, quando afferma che sono giorni oscuri per la libertà della rete. Cerchiamo dunque di orientarci nel labirinto di polemiche che hanno accompagnato il cammino della direttiva. L’obiettivo dichiarato, condivisibile, è quello di riformare e modernizzare le regole relative ai contenuti che circolano in rete soggetti a licenza (diritti d’autore, proprietà intellettuale, ecc.).

La direttiva stabilisce una serie di misure il cui risultato sarà vietare, rendendole impossibili, alcune abitudini quotidiane degli internauti: condividere notizie sulle reti sociali o postare “memi”, i contenuti creati dagli utenti, se soggetti in tutto o in parte a licenze o diritti. La privatizzazione della rete a vantaggio di pochi grandi è cosa fatta, con tutte le conseguenze in termini di limitazione della libertà.

La polemica investe soprattutto due articoli. L’articolo 15 stabilisce il pagamento di una somma, già definita link tax, per poter condividere contenuti attraverso il collegamento ad altri siti. Si obbliga cioè a pagare per diffondere contenuti; il risultato sarà che non si potranno più mostrare gli estratti e moltissimi contenuti (e siti) o cesseranno di essere disponibili.

Ancora più controverso è l’articolo 17, che obbliga i grandi media sociali (Twitter, Facebook, Instagram, Youtube) e i motori di ricerca a stabilire filtri per bloccare automaticamente tutto quanto è coperto da diritto d’autore. Secondo molti esperti, l’imposizione della link tax è assurda, specie se riferita al contenuto di mezzi di comunicazione, che in molti casi sono i maggiori interessati alla diffusione e condivisione delle loro notizie. Altri, come la Piattaforma in Difesa della Libertà di Espressione, sottolineano l’impatto negativo sul pluralismo informativo, oggi assicurato quasi esclusivamente dalla rete, per la dipendenza dell’intero sistema di comunicazione dalla cupole oligarchiche di potere.

I media interessati, a partire da Google, faranno largo ricorso ai cosiddetti “filtri di caricamento”, strumenti complessi assai costosi a disposizione di pochi, potenti software di intelligenza artificiale incaricati di ispezionare immense quantità di dati. Per quanto la normativa esenti dagli adempimenti i soggetti con modesto volume d’affari, ciò espellerà dal mercato chi non è in grado di svolgere i controlli prescritti. Rimarranno attivi, come in tutti gli altri settori economici, i colossi, alla faccia del totem della concorrenza e del libero mercato. Il rischio più evidente, già manifestatosi in numerosi episodi con protagonista Facebook, è che la censura – poiché di questo si tratta – sia realizzata non da soggetti umani, ma da algoritmi, equazioni e modelli matematici.

I professionisti del settore ammettono che le grandi corporazioni tecnologiche, i soliti Google, Facebook, Apple, faranno largo uso di quelli che chiamano “falsi positivi”, ovvero eserciteranno la massima censura al minimo dubbio per evitare cause e richieste di indennizzo.

La direttiva riconosce una certa libertà nell’ambito di semplici citazioni, ma è ben difficile che le sfumature di giudizio raggiungano i modelli matematici, che finiranno per generare meccanismi automatici di blocco. La macchina ha un unico interesse, riconoscere il contenuto in cui compaiono estratti coperti da diritti.

La normativa prevede che si possa ricorrere contro la censura “tecnologica”, ma indica come responsabili i gestori di servizi che permettono di condividere contenuti, obbligandoli di fatto a porre in essere filtri di cancellazione, cioè praticare una gigantesca censura. Solo la supervisione sarà di competenza umana, per cui l’esito è scontato: prima la chiusura, poi la richiesta di intervento su reclamo dell’utente “bannato”. Risultato, meno libertà, spazi chiusi per i “piccoli”, ostracismo agli oppositori.

I primi sondaggi d’opinione segnalano una forte irritazione, sette europei su dieci intervistati ritengono che il parlamento europeo abbia utilizzato la proprietà intellettuale come alibi per tagliare la libertà di espressione. Si sono mossi intellettuali, docenti, scienziati, cittadini comuni. Una lettera aperta è stata firmata da oltre centotrenta manager di primo piano, convinti che le nuove disposizioni finiranno per danneggiare l’economia. Tra loro, spicca il nome di David Kaye, relatore delle Nazioni Unite per la libertà di espressione. La verità è che il testo votato è un abile compromesso sulla nostra pelle tra i colossi digitali e le lobby dei titolari di diritti d’autore, licenze e proprietà intellettuale.

Solo in superficie la direttiva è contraria agli interessi dei giganti di Silicon Valley. Non dimentichiamo che alcune settimane fa è stata rinviata a data da destinarsi la questione dell’imposizione di una (modesta) tassa europea a loro carico, i maggiori elusori ed evasori fiscali del pianeta attraverso meccanismi di deterritorializzazione e creazione di caroselli di imprese e giri di fatturazione che impediscono il prelievo fiscale. L’esultanza per l’approvazione della direttiva di Antonio Tajani, il giornalista già portavoce berlusconiano assurto alla presidenza dell’europarlamento, dimostra l’asservimento delle maggiori forze politiche europee.

Certo, desta sorpresa l’inedita alleanza tra settori d’opinione pubblica non conformista e i signori del web, ma i fatti dimostrano che le nuove norme, oltre ad attaccare pesantemente la libertà d’espressione, quindi il pensiero critico, sono un nuovo mattone nell’edificazione di un mondo totalmente privatizzato, in cui ogni cosa, a partire dalla cultura, è sottomessa a un osceno diritto di proprietà sovraordinato a tutto.

Non crediamo alla sincerità dell’opposizione alla direttiva di Google, Mozilla, Twitter e Wikipedia, ma non hanno torto gli animatori di XNet, piattaforma specializzata in diritti digitali, ad affermare che quello votato a Strasburgo è un testo tecnofobo, cucito su misura per i monopolisti del copyright, per di più non in grado di garantire il diritto degli autori a vivere degnamente del loro lavoro. La remunerazione, infatti, arriverà loro solo in scarsa misura, restando in capo agli editori, come osserva la delegazione della Lega all’Europarlamento.

Ecco chi ha votato per la censura. Per Lenin, il comunismo era “I soviet più l’elettrificazione”, per i piddini, la UE è “censura sovietica più le nozze gay”

Un portavoce di Twitter ha dichiarato: “manteniamo la nostra preoccupazione per le implicazioni della votazione sulla natura creativa, aperta, volta al dibattito, propria di Internet”. Da Google, la cui piattaforma Google News si nutre di collegamenti esterni, si dicono preoccupati per gli aspetti confusi del testo, destinati a generare infinite controversie giuridiche. Mozilla, creatrice del popolare browser multipiattaforma Firefox, dichiara apertamente che la norma serve a blindare i guadagni dei grandi titolari di diritti (editori, majors musicali), a detrimento del pubblico, con scarsa tutela per milioni di autori e piccole e medie imprese.

Il livello di pessimismo è grande, e riguarda sia l’impatto sugli utenti sia la pratica attuazione. E’ opinione corrente che l’articolato contenga contraddizioni palesi, alimentando una confusione tale da non poter fare previsioni, se non prendere atto che modificherà nel profondo il modo di vivere Internet. L’UE offre ai grandi motori di ricerca e alle reti sociali globali un nuovo potere e una grave responsabilità, in cambio di denaro da distribuire a editori, detentori di marchi, licenze e diritti d’autore, i loro grandi clienti pubblicitari. E’ una partita di giro, alla fine, in cui i grandi attori tecnologici ed economici se la cantano e se la suonano tra loro. Lottano per giganteschi profitti, come la raccolta pubblicitaria in rete, in mano per tre quarti a due soli soggetti, Google e Facebook, si scannano, o fingono di farlo, per la divisione della torta, ma il prodotto che vendono, una volta ancora, siamo noi, con fattura a nostro carico.

Nessun riguardo, da parte loro, per i nostri interessi e per il diritto a sapere, diffondere, produrre contenuti, cioè idee, conoscenza, cultura.  Entro certi limiti possiamo comprenderlo, sono privati dediti unicamente al profitto. Ciò che maggiormante indigna è il servile atteggiamento di chi, il dannoso parlamento europeo, diventato organo interno delle grandi lobby, dovrebbe rappresentare la voce dei popoli, l’interesse generale, la dimensione pubblica. C’è solo da sperare nella capacità di mobilitazione popolare- che procede principalmente dalla Rete! – e nel castigo degli elettori alle forza politiche “di sistema” alle elezioni europee del 26 maggio, tale da rimettere in forse la direttiva. A livello italiano, conforta la presa di posizione governativa, da verificare quando la norma dovrà diventare legge dello Stato, ma colpisce negativamente il voto europeo favorevole pressoché unanime dei deputati di sinistra, solo a chiacchiere sensibili al tema della libertà dei cittadini.

La vigilanza deve essere massima, unita all’informazione più puntuale, assicurata- finché sarà possibile- da quei settori della Rete il cui bavaglio è l’obiettivo finale dei grandi centri di potere. Di certo, dal 26 marzo 2019 mezzo miliardo di europei sono meno liberi e hanno perduto parte del diritto a un’informazione libera. In compenso, sono più forti le oligarchie, specialmente i grandi gruppi editoriali, costola delle cupole di potere, e l’industria culturale orientata al profitto. Quanto ai giganti della tecnologia, continueranno a esercitare il loro monopolio, pagando qualcosa ai titolari di diritti di proprietà intellettuale. Faranno il lavoro sporco del potere, decideranno per tutti e continueranno a non pagare le tasse. Il conto, come sempre, quello economico e quello della minore libertà, dell’informazione censurata, delle idee vietate dagli strozzini postmoderni, è a carico dei popoli e dei cittadini.

 

(Il vero scopo: censura alle notizie vere)