NEOFEMMINISMO. IL COLORE DEL RANCORE

di Roberto PECCHIOLI

Grazie a Dio, l’8 marzo è passato. La giornata internazionale della donna è trascorsa in Italia tra manifestazioni, l’odore pervasivo delle mimose e i consueti pistolotti virtuosi della politica, in cui destra e sinistra gareggiano per intestarsi l’avanzata femminile e pronunciare discorsi di circostanza gareggiando in femminismo da salotto. Il segnale più inquietante è stato il cartello brandito in corteo dall’ineffabile onorevole Cirinnà, quella delle unioni civili pro gay, la stessa che nel profilo sulle reti sociali dichiara di essere “madre di figli non umani”, i suoi animali di compagnia. “Dio, Patria, Famiglia. Che vita de merda” è il contributo culturale della riccioluta esponente del PD, a chiarimento del reale obiettivo della legge che porta il suo cognome. Ognuno ha i principi che merita, compreso l’odore della sostanza indicata nel signorile slogan.

All’estero è andata peggio, specie in Belgio e Spagna, con lo sciopero delle donne, cortei numerosi e gonfi di rancore, insulti contro la Chiesa, parole d’ordine minacciose, trionfo del colore viola, simbolo di un risentimento acrimonioso che è la cifra del neo femminismo odierno. Le femministe ribatteranno che si tratta del più delicato lilla, che evoca Lilith, l’angelo caduto, la donna che nella tradizione ebraica antica rappresenta la ribellione ad Adamo. Alcune leggende la considerano addirittura la prima moglie di Adamo, uccisa per punirne la disobbedienza. In Spagna un folto gruppo di gentildonne e ragazzine ha intonato un simpatico cantico: Espana manana serà lesbiana, la Spagna domani sarà lesbica. Femminismo vendicativo più omosessualismo più aborto banalizzato. Sarà una bella società fondata sulla libertà, cantavano i Rokes nei ruggenti anni 60: eccola.

Preoccupa il silenzio delle correnti culturali che dovrebbero contrastare la deriva neo femminista ma tacciono per paura, indifferenza, sottovalutazione o, peggio, per averne assunto le ragioni. Tentiamo noi di fornire un’interpretazione controcorrente di un filone antropologico che rischia di travolgere quel che resta del senso comune. Innanzitutto, una constatazione: si tratta di post marxismo in salsa libertaria, le cui radici si rintracciano nella scuola di Francoforte, in stretta alleanza con il potere accademico e mediatico, rimasto saldamente in mano alla sinistra culturale con l’interessato beneplacito dei “superiori”, le oligarchie neoliberiste fedeli al motto divide et impera.

I progressisti autonominati, orfani del paradiso perduto comunista, tuttora al potere nella comunicazione e nei luoghi di formazione hanno bisogno di alimentare una perenne guerra civile; usurpano di volta in volta l’esclusiva rappresentanza della classe, del popolo, del proletariato, delle donne. Non possono evocare la lotta di classe per il discredito che ha travolto il collettivismo, quindi hanno dichiarato la guerra dei sessi. La prima forza che muove il mondo è la menzogna, in cui sono maestri. Il neofemminismo, a differenza di quello passato, che aveva buone ragioni e ha conseguito le sue vittorie, è una forma scatenata di misandria, cioè di odio ossessivo per il sesso maschile. Non è sul rancore, sulla lotta continua che si può fondare una società, tanto meno una comunità.

E’ in azione un inganno di massa, vendicativo e livido, che ha deciso per tutti/e che l’uomo è un violentatore seriale, un oppressore dalla natura malvagia. Su questo presupposto, fanno passare un nuovo diritto penale in cui la “violenza di genere”, il nuovo sintagma chiave dell’attacco, prescrive una differenza nel giudizio e nelle pene per reati commessi da uomini nei confronti delle donne, in spregio della proclamata uguaglianza. Enfatizzano la disuguaglianza salariale – inesistente – per ottenere forme di privilegio battezzate discriminazione positiva. Tale principio, creato nei laboratori distruttivi delle università americane in ambito etnorazziale, è un’aberrazione concettuale in base alla quale negli Usa il merito fondamentale per accedere a incarichi o impieghi pubblici, persino per occupare una cattedra di diritto o fisica quantistica risiede nella condizione di neri, ispanici o asiatici. E’ una forma di ascensore sociale assurda e discriminatoria. A vecchie ingiustizie si rimedia creandone di nuove, a parti invertite. Presto, oltre alle quote di genere per l’elezione nelle istituzioni politiche, avremo quelle per i consigli di amministrazione delle aziende, già vigenti in nord Europa, in spregio del conclamato criterio liberale del merito.

L’intera società finisce per essere dominata da una nuova isteria composta di rancore, dita puntate contro il nemico maschile, con l’abituale corredo di insulti, imposizione di verità ufficiali, creazione di organi preposti con denaro pubblico a rimuovere discriminazioni antiche, non importa se vere o presunte, per sostituirle con le nuove. E’ la fattoria degli animali di Orwell, dove tutti gli animali sono uguali, ma alcuni più degli altri. Chi dissente non ha diritto di parola, può soltanto essere sommerso dall’odio, reso indegno di partecipare al dibattito, denunciato in base alla neo legalità. La democrazia dei buoni e delle buone, i giusti animati dalle migliori intenzioni.

Dalle retrovie minoritarie dell’estremismo di alcune, avanza uno sconcertante rigetto della maternità, definita anch’ essa un prodotto dell’esecrato eteropatriarcato, ossia della dominazione dell’essere pessimo e schifoso per eccellenza, l’uomo normale, definito con disprezzo maschio eterosessuale. L’ alleanza oggettiva con le più oscure fucine di certe oligarchie tecno scientifiche antiumane è evidente. Le neofemministe rifiutano la maternità in quanto oppressiva, scomoda, fastidiosa, creatrice di responsabilità e legami (quelli di sangue, poi, che orrore!), ma poiché sentono anch’esse i rintocchi dell’orologio biologico, accettano di buon grado lo schiavismo sessuale di donne povere per affittarne l’utero, in attesa delle meraviglie dell’ectogenesi, cioè della riproduzione realizzata fuori dal corpo umano.

Su tutto, domina un clima tossico di sfiducia, contrapposizione, incomunicabilità tra i due sessi. Se l’uomo è il male, l’eteropatriarcato è il peggio – chissà se un eventuale omopatriarcato sarebbe preferito dalle erinni postmoderne – che ne è dei figli, quando, per caso, errore o pulsione ostinata per la vita, vengono al mondo? Come faranno in un clima siffatto a vivere insieme, unirsi, amarsi, rispettarsi, un uomo e una donna?

Il padre non conta, verrà cacciato, trascinato indirettamente all’irresponsabilità più meschina, obliterato dopo aver partecipato al concepimento, meglio se attraverso l’umiliante pratica dell’inseminazione artificiale masturbatoria (ci scusiamo per la crudezza dell’espressione, ma non se ne può fare a meno). Se nascono delle femminucce, tutto bene, verranno educate nel gineceo rancoroso, ma i maschietti? Non potranno che essere allevati nel senso di colpa, nell’occhiuta repressione dei loro istinti naturali, proclamati violenti, oppressivi, persecutori e chi più ne ha più ne metta. Se diventeranno omosessuali – la cosa è probabile – che sollievo, in caso contrario che faranno le madri postmoderne di colore viola? Odieranno i figli contro ogni istinto di natura, costruiranno cordoni sanitari affinché non possano contaminare, violentare, uccidere le coetanee, ciò che fanno con piacere per inclinazione selvaggia?

Radicalizziamo, certo, ma questo è l’esito della non società che si prospetta, con un buco nero: l’apartheid per sesso, anzi genere, una separazione innaturale prodromo della rapida estinzione della specie umana nella variante razziale e culturale europea e bianca, l’unica a prendere sul serio le panzane delle ideologie di genere, neofemministe, abortiste e omosessualiste, distinte ma collegate con un filo d’acciaio. E’ in azione un nuovo insidioso suprematismo dei buoni e delle buone, che ha nel mirino l’eteropatriarcato e l’intero sesso maschile. Insieme con gli uomini e la maternità odiano anche le donne, quelle “normali” che sono ancora la maggioranza e non credono alla narrazione imposta, non sentono la necessità di declinare al femminile le parole maschili, tanto meno vogliono rinunciare alla naturale alleanza con l’uomo che fonda, riproduce e mantiene la comunità, costruisce la società, dà senso alla vita, è la vita.

Il progetto di ingegneria sociale è spaventoso, va denunciato a costo degli insulti e dell’incredulità dei pavidi, dei tanti – uomini e donne – colti dalla sindrome di Stoccolma, il morbo che fa simpatizzare con l’avversario. Questo è il problema: come possiamo essere avversari, se nella storia personale di ognuno le persone più amate e importanti sono in gran parte dell’altro sesso? Occorre prendere atto che il femminismo degradato in veleno di questi anni è un nemico e come tale va combattuto. Pensiamo al clima velenoso di sfiducia reciproca, la battaglia permanente cui vogliono costringerci. Come faremo a metter su famiglia, come potremo mettere al mondo figli, educarli, in mezzo a rivendicazioni continue, giudizi al microscopio per ogni atto della vita, bilancino del dare e dell’avere sempre in funzione?

Dall’America, insieme a mille altre sciocchezze, abbiamo importato i contratti matrimoniali, le minuziose descrizioni di ciò che si può e non si può fare in coppia, diritti, doveri, i rapporti economici come principale campo di battaglia, poi il sesso, la custodia e il mantenimento dei figli, a numero programmato sotto pena di risarcimento e, sul medesimo piano, gli animali domestici. Una vita ridotta a assemblea permanente con tutor, avvocati, consulenti, moduli burocratici e esperti di sostegno, i sentimenti relegati nella partita doppia, i figli a me dalle 8 alle 12, poi a te per due ore, le scarpe a mio carico, la scuola a te, per me il calcetto del mercoledì, a te il collettivo con le compagne il sabato, baby sitter a mio carico, il dog sitter lo paghi tu, se resti incinta aborto libero, nel capitolato non è previsto il secondo figlio, paga lo Stato, il ticket per fortuna è detraibile. Il trionfo del mercante in un deserto senza oasi.

Il risultato è la fine del matrimonio e il trionfo del rapporto occasionale, la pulsione al posto dei sentimenti, l’attimo in luogo del progetto a lungo termine, l’universo “liquido” di relazioni brevi, basate sul piacere (proprio) e tutte le forme di interesse: un mercato indegno dell’essere umano. Il neo femminismo si è trasformato in religione settaria con una forte dimensione messianica.  Hanno raggiunto la verità assoluta, dividono il mondo tra amici e nemici da distruggere, dietro il velo sempre più impalpabile della tolleranza emerge il totalitarismo, l’odio iracondo per l’uomo, l’altro/a, per chi osa non essere conforme. Lo scritto della Cirinnà è rivelatore: è “vita de merda” – anche l’ortografia ha regole nuove, non eteropatriarcali – tutto ciò che non si piega al modello settario. E’ un miscuglio indigeribile di nazismo (la nuova razza superiore tutta al femminile) e di veterocomunismo (le leggi ad hoc, nuove burocrazie al servizio dell’ideologia, la pulsione a omologare, schiacciare, il divieto del dissenso).

Ogni gesto, sguardo, azione, intento deve essere analizzato, scrutato, sottoposto a giudizio da parte di nuove burocrazie, tribunali del pensiero che confermano la vera natura del fenomeno, un po’ nazi, un po’ giacobino, il resto neocomunista: inquisizione, delazione più gogna sulle reti sociali e, quando necessario, aggressione fisica, disprezzo intellettuale, emarginazione. Un mondo fatto di sfiducia reciproca con una vittima e un carnefice designato a priori il cui destino è l’alternativa tra essere riconfigurato o condannato preventivamente. Risorge la fisiognomica criminale di Lombroso in versione anti maschile, nuovi pregiudizi al posto di quelli vecchi, bella emancipazione, splendido esercizio di libertà, democrazia, tolleranza dell’ideologia progressista.

Nel corso del carnevale, in alcuni paesi è stato esplicitamente vietato, con tanto di pesanti sanzioni, lo scherzo, la battuta scherzosa, in quanto sessista oppure omofoba o, Dio non voglia, razzista e maschilista. Strano solo in apparenza il divario tra il femminismo, sempre buono e giusto, e il maschilismo. Il giudizio è contenuto nelle parole, come insegna il politicamente corretto, scissione della realtà dai termini che la esprimono per caricarla del contenuto etico voluto. La censura non cambia, mutano solo i bersagli.

Dicevamo che il nuovo femminismo è il filo che collega una serie di totem postmoderni. Il loro punto di congiunzione è l’idea comune sull’aborto. Banalizzato come meccanica espulsione di cellule indesiderate dal corpo della donna, in cui si sarebbero introdotte abusivamente (??) per colpa dell’animale maschio, il rigetto della gravidanza indesiderata si è trasformato in rifiuto complessivo della maternità. Gruppi di donne autonominate “child free” sono ostili alla prospettiva di essere madri. Certo, è faticoso portare in grembo un figlio per nove mesi, partorire comporta dolore e dei rischi, poi il bimbo (o la bimba, bisogna stare attenti a non macchiarsi di maschilismo grammaticale) nasce e bisogna accudirlo, crescerlo, educarlo. Per questo reclamano più Stato, a spese altrui, per scaricare responsabilità e disagi tra esperti, figure professionali in camice bianco, consultori, personale “di sostegno”.

Per le femministe, la carriera, o almeno la realizzazione professionale viene prima di tutto: si sono trasformate in scimmie dell’uomo, imitandone i difetti. Pazienza se nella gran parte dei casi, la “realizzazione” altro non è che una dura corvé mal retribuita, lunghe ore in fabbriche, uffici, precarie come l’odiato maschio. La maternità non è la regola imposta dalla natura biologica, ma un ruolo sociale. Ditelo a mamma gatta o alla cagnolina di casa, tanto per restare ai beniamini elevati a “figli non umani”.  E poiché i simboli restano importanti, pur se incomprensibili alla massa del gregge, non dimentichiamo che Lilith, luna nera, madre terribile, è rappresentata mentre vaga di notte a uccidere i bambini o a costringere gli uomini ad amplessi mortali, sirena manipolatrice e distruttrice.

La differenza con le sue figlie contemporanee sta nel fatto che non sono affatto ribelli, ma perfettamente integrate nel sistema, di cui diventano avanguardie e guardie viola o lilla. Alimentano il conflitto tra i sessi funzionale alle cupole di potere, specie nell’ansia transumana di piegare e forzare la natura.  Per il femminismo terminale la relazione familiare, come il rapporto uomo-donna, è essenzialmente economico. Spesso definiscono il matrimonio prostituzione legalizzata, escludendo l’affetto e l’impegno reciproco. Sono interessate esclusivamente all’agenda politicamente corretta: aborto, denatalità, abbattimento delle frontiere etiche e bioetiche, giustizia “razziale” e di genere, potere attraverso la leva sessuale.

Battaglie per sedicenti diritti il cui esito è la disgregazione sociale, la contrapposizione permanente, il nichilismo. Proviamo a valutare la differenza tra due affermazioni a proposito del modello “tradizionale”: la moglie condivide e spesso amministra il reddito del marito come perno della famiglia; nella versione femministicamente corretta, la moglie dipende economicamente dal marito. Nel primo caso, sono entrambi gli sposi a portare avanti la famiglia fondata su affetto e condivisione, nel secondo tutto si riduce a una relazione economica diseguale da sradicare, la ragione strumentale dei contabili devoti alla calcolatrice.

E’ il presente, in attesa di un futuro terribile, ma di breve termine, giacché la società così (dis)orientata non può durare e tanto meno riprodurre se stessa. Questo è lo stato dell’arte di cui non si deve parlare, l’interdetto del pensiero postmoderno. Aveva ragione Francis Bacon, chi non vuole pensare è un fanatico, chi non può, poveretto, è un idiota, ma chi non osa pensare è un vigliacco.

ROBERTO PECCHIOLI