SUL PRESUNTO RILANCIO DELL’IMPEGNO POLITICO DEI CATTOLICI

(Post di Arturo) mercoledì 13 febbraio 2019

  1. In occasione del centenario della fondazione del Partito Popolare si fa un gran parlare sui media di un rilancio dell’impegno politico dei cattolici, in particolare in chiave “sturziana”.

Per esempio un osservatore acuto, anche perché interessato, delle correnti profonde della politica italiana come Ernesto Galli della Loggia ritiene la situazione sia matura per una svolta cattolico-liberale:

Oggi la morte delle antiche culture politiche di destra e di sinistra, la crisi evidente del bipolarismo, l’emergere prepotente di un orizzonte confusamente nazionalista-identitario dai tratti populisti, mentre ancora sopravvive una Sinistra senz’anima e senza idee, oggi, dicevo, tutto ciò apre nuovi spazi, ridà una nuova prospettiva strategica e sembra riattualizzare in misura decisa l’ispirazione democratico-liberale propria del cattolicesimo politico italiano.

Ecco quindi il senso dell’appello ai cattolici:

Aggiungendovi un fondo di «popolarismo» il quale può ben rappresentare il germe potenziale di un populismo «buono» da opporre a quello cattivo del plebiscitarismo «russoiano» e della ruspa salviniana.”

Indicazioni chiarissime, su cui vale la pena riflettere, ma a contrario. Vi parlerò quindi sì di un esempio di impegno politico dei cattolici, ma di segno opposto a quello di Sturzo: mi riferisco a Giorgio La Pira.

  1. A questo proposito raccomando ai cattolici, e non solo, il bel libro curato da Piero Roggi, I cattolici e la piena occupazione, pubblicato da Giuffrè nel 2004, arrivato alla sua terza edizione.

Oltre a un’approfondita e preziosa introduzione storico-economica, scritta dallo stesso Roggi, il volume contiene documenti di difficile reperibilità, riferiti a un dibattito che ha perso ben poco della sua attualità.

Iniziamo con un accenno alla formazione di La Pira.

2.1. La Pira approda al keynesimo a partire da una filosofia sociale legata all’Umanesimo integrale di Jacques Maritain.

Scrive Roggi (op. cit., pag. 48-50): “L’Umanesimo è la dottrina filosofica che presiede in questo periodo alla riflessione di La Pira sulle questioni sociali. Bisognerà partire da questa dottrina se si vuol giungere alla comprensione del suo pensiero economico. L’umanesimo integrale che la Pira professa è una teoria, una visione dell’uomo nella sua connessione con Dio e con la società.
L’idea generale che sostiene questo umanesimo consiste nella assoluta preminenza dell’uomo rispetto a tutte le istituzioni sociali nelle quali progressivamente egli si integra: la famiglia, la professione, lo Stato, la comunità internazionale.”

Aveva dunque questa visione generale del mondo una caratteristica (l’idea della superiore dignità dell’uomo rispetto a tutto il resto) che si venne poi specificando in un modo del tutto particolare di capire i fenomeni economici e il sistema economico nel suo complesso. Se l’uomo è preminente, se la sua dignità si può coniugare solo con quella di Dio e solo ad essa può essere paragonata, se insomma l’uomo è signore delle cose, questa signoria è rispettata oppure no nelle forme storiche che l’umanità si dà per risolvere i propri problemi economici?
Il capitalismo è un sistema economico nel quale l’uomo è signore della macchina che usa come strumento? E ancora: i rapporti che gli uomini intrattengono con gli altri uomini sono forse rapporti di pari sovranità? 
Tali furono le domande che da quella filosofia generale venivano poste all’attività economica.
Le risposte erano scontate: il capitalismo è un sistema economico caratterizzato dalla preminenza del capitale sull’uomo, cioè della macchina e del denaro sull’uomo il quale, all’interno del capitalismo, altro non è che un servo ubbidiente di tali nuove potestà, un nuovo schiavo, come l’aveva chiamato Lamennais.

Ovvero “« Il capitalismo per esistere suppone una violazione del Cristianesimo », dirà La Pira.”

Non erano ovviamente posizioni isolate in ambito cattolico.
L’originalità di La Pira è stata però di farne conseguire, anziché semplicemente la Dottrina Sociale della Chiesa, l’approdo al keynesismo.

2.2. La Pira arrivò a Keynes attraverso Beveridge.
L’incontro si sviluppò non solo sulla base di motivazioni tecniche, ma, più in profondità, in ragione di un’affinità con la più generale ispirazione dell’opera keynesiana:
Ma era soprattutto il filosofo sociale, oltre che il teorico, a suscitare l’interesse di La Pira. Le teorie sociali di Keynes contenevano una non ostentata simpatia per i poveri che collimava con quella di La Pira. Al contrario della filosofia sociale implicita nella teoria economica neoclassica, nella filosofia sociale di Keynes non trovava posto il famoso « beati possidentes »
L’occupazione operaia veniva fatta dipendere da una serie di fenomeni che un po’ genericamente possono essere ricondotti sotto l’etichetta dei vantaggi per gli operai e degli svantaggi per i redditieri. Nella teoria neoclassica dell’occupazione invece, questa viene a dipendere dal mantenimento di differenze sociali considerevoli e da una serie di vantaggi per i redditieri.
Argomentava dunque Keynes: «il nostro ragionamento parte dunque dalla conclusione che lo sviluppo della ricchezza lungi dal dipendere dall’astinenza dei ricchi, ne è ostacolato. Viene dunque a cadere una delle principali giustificazioni sociali alle forti disuguaglianze di ricchezza». E ancora «il nuovo stato ideale di cose significherebbe l’eutanasia del redditiere, cioè l’eutanasia del potere oppressivo del capitale ». Nella teoria neoclassica è il redditiero che spinge, col risparmiatore, la ruota dell’investimento. 
Non risparmiare è non investire e non investire significa non lavorare. Il risparmio è, rispetto all’occupazione, l’atto genetico, quello che deve essere circondato dal massimo delle premure sociali. 
Redditi sproporzionati si giustificano allora perché chi li percepisce risparmia; alti saggi d’interesse si giustificano allora perché favoriscono il risparmio. Ecco dunque la filosofia finale racchiusa, secondo Keynes, nella teoria neoclassica dell’occupazione: si tratta di una teoria incentrata sul risparmio e sui vantaggi dei redditieri che quel risparmio devono produrre. Al contrario di quanto avviene nella teoria keynesiana, il lavoro degli uni dipende dai privilegi degli altri. Non è invece questa la filosofia sociale implicita nella teoria keynesiana dell’occupazione; La Pira l’ha rilevato spesso nelle sue opere. 
Più che citarlo, le citazioni sarebbero tante, conviene cogliere ciò che del keynesismo poteva essergli congeniale. Il lavoro degli operai in Keynes, dei poveri per La Pira, dipende dal loro benessere. Non dal benessere di altri, ma dal loro stesso benessere. Gli altri, anzi, i redditieri, più saranno danneggiati, più lavoro ci sarà per i poveri. Ci sono alti salari? Ebbene questo è benessere ma, in termini keynesiani, è anche incremento di spesa per il consumo, è occupazione. Si decide di abbassare il saggio di interesse, di danneggiare i redditieri? La « convenienza ad investire » aumenterà; in termini keynesiani ciò vuol dire maggiore occupazione. Aumentano i prezzi e si svaluta la moneta: ciò favorisce ancora gli investimenti e aumenta l’occupazione. Ma i redditieri non si rallegreranno della svalutazione. Al fondo della teoria keynesiana dell’occupazione sta dunque uno schierarsi a favore dei meno fortunati: si tratta di una teoria dell’occupazione incentrata sui vantaggi dei meno ricchi e sugli svantaggi dei più abbienti. Al contrario della reazione che suscitava in La Pira la filosofia sottostante all’impostazione neoclassica, quella keynesiana aveva tutte le caratteristiche per accordarsi con la sua visione del mondo e con quella « passione per i poveri » che caratterizzò la sua opera.” (Ibid., pagg. 57-9).

Perdonate la lunga citazione, ma mi è parsa davvero illuminante, tra l’altro nel mostrare com’era più semplice difendere l’ortodossia monetaria in tempi prekeynesiani: se gli investimenti dipendono dal risparmio e questo dalla sua remunerazione ecco che l’inflazione diventa credibilmente il peggiore dei mali. Oggi bisogna ovviamente ricorrere a spiegazioni molto più faticose, pittoresco connubio di matematicorum e moralismo, in contrasto con elementari dati di realtà.

2.3. Tornando a noi, bisogna fare chiarezza sulla natura precisa di questa preoccupazione per i poveri, anticipando una citazione dal dibattito che seguì a quello che sarebbe stato il frutto teorico della coniugazione del Vangelo con Keynes, ossiaL’attesa della povera gente.

Osserva La Pira: “è stata toccata la premessa religiosa, quando sono state riportate le parole di Gesù: « I poveri li avrete sempre con voi », quasi a legittimare l’impotenza di un determinato sistema economico, finanziario e politico incapace di eliminare dal suo seno il cancro della disoccupazione e quello della miseria.”

La risposta di La Pira è perentoria: “I poveri non sono un’eucarestia sociale”.

Ovvero: “La premessa cristiana impegna nel fine ed impegna anche nella ricerca sempre viva dei mezzi proporzionati a tale fine: questi mezzi devono esistere, esistono, se ad essi è legato un fine così essenziale per l’uomo: si tratta di ricercarli con amore appassionato, con mente sempre aperta ad ogni spiraglio di luce che permetta, in qualche modo, di intravederli.
Keynesiani, non keynesiani? I nomi non contano, contano le cose: credere che sia possibile una tecnica risolutiva (anche se con prudenza) del massimo problema sociale (disoccupazione e miseria) o essere scettici intorno alla possibilità di essa ed alla efficacia risolutiva di essa: questo è il dilemma.
La radice del contrasto che questa polemica così viva ha messo in luce è tutta qui: è un contrasto di fondo; rileva due concezioni diverse delle ripercussioni sociali del cristianesimo, due modi diversi di concepire la finalità dell’economia, della finanza e della politica. Non è un dissenso di dettaglio, non si può dire che, in fine, le due parti sono d’accordono, non sono d’accordo, perché il loro disaccordo tocca le idee di base e di orientamento.”
 La parte in neretto è enfatizzata con un corsivo nel testo originale, La difesa della povera gente.

  1. Ovviamente per l’assimilazione dell’impostazione keynesiana fu determinante la frequentazione della sinistra cattolica: Fanfani, di cui La Pira, eletto deputato nel ’48, fu sottosegretario al lavoro, e le dossettiane “Cronache sociali”, dove scriveva il giovane Caffè. In effetti l’attesa comparve proprio su “Cronache sociali” (n. 1, del 15 aprile 1950).

Il problema che si trovò ad affrontare La Pira fu quello di essere keynesiano in un governo dominato dalla linea liberale Einaudi-Pella (abbiamo parlato diverse volte dell’origine del centrismo: per esempio qui). Un’esperienza breve e faticosa, da cui ricavò alcune riflessioni che possono forse avere ancora una qualche utilità:

Quando però accettò di essere eletto deputato nel ’48 ed in seguito di diventare sottosegretario al Lavoro, con Fanfani ministro, lo fece proprio perché pensava ad una larga possibilità di intervento. Accettò e volle il potere come possibilità di cambiare le cose (e sempre nella vita ironizzò sui « contestatori del potere »: « non vogliono che lo abbiano altri per prenderlo loro; senza potere che fai? » « L’operatività viene dal potere, è grande responsabilità; bisogna pensare prima di accettare, poi non hai altro dovere che portare avanti bene le cose »).” (I cattolici e la piena occupazione cit., pag. 101).

Proprio l’insoddisfazione per la linea governativa fu all’origine delle dimissioni di Fanfani e La Pira. Può essere interessante riportare ciò “che La Pira ebbe a dare sulla vicenda molti anni dopo: « Fummo ragazzi, volevamo 450 miliardi subito per sanare la disoccupazione e demmo le dimissioni tutti quanti ». A distanza di tempo ci rideva — commenta Fioretta Mazzei nel suo libro di ricordi su La Pira — e scuoteva il capo: « potevamo fare tante cose ».” (Ibid., pag. 39). Da meditare.

  1. Uscito dal governo scrisse le Attese. Il testo, che ho linkato sopra, non è lungo, lo potete leggere integralmente.

Qui riporto solo un paio di passaggi (eliminando le note).

La povera gente “che ha buonsenso” non si dà pace quando riflette su questa incongruenza dell’attuale struttura dell’economia: ma come, con tante case da costruire, con tante terre da bonificare, con tanti beni essenziali da produrre, con tante “aree depresse” da elevare, si può permettere l’esistenza di tanti milioni di braccia inoperose [sul testo riportato da Giorgio, che è quello contenuto nella raccolta di scritti di Caffè, leggiamo “operose”, ma come potete verificare qui, pag. 22, l’aggettivo è ovviamente “inoperose”]?

E si tenga conto, inoltre, del fatto del “moltiplicatore”: per uno che cessa di lavorare cessano di lavorare altri (concetto tecnico in Di Fenizio, Economia politica, pp. 456 e segg.).

Come mai sia possibile questo vero “impazzimento” economico e morale la povera gente non lo capisce; essa comprende che c’è qualcosa di specioso, di fondamentalmente errato, nella risposta inumana che comunemente si dà per giustificare questo triste fenomeno della disoccupazione: Non c’è denari!

Ecco: prima di rispondere a queste domande “che potrebbero provocare la risposta pigra: non ci sono i danari perché il bilancio dello Stato è in deficit “bisogna fare una premessa: l’ozio forzato è uno spreco di risorse materiali e di vite umane, che non potrà mai esser rimediato e che non può difendersi con ragioni di ordine finanziario (Beveridge, §198).  
Bisogna capovolgere il modo comune di impostazione del problema, cioè proporzionare la cassa alla spesa e la spesa all’occupazione; si comprende, è un’impostazione del problema che esige un grande sforzo di riflessione, di volontà creatrice. Partire dall’uomo, cioè dal fine, non dal danaro, cioè dal mezzo.

E’ questa un’impostazione secondo il Vangelo (perché una impostazione umana dell’economia attira la benedizione di Dio e opera dei veri miracoli, incognita di ogni calcolo generoso!) ed è anche un’impostazione economicamente sana (perché tra l’altro i danari per dar da vivere ai disoccupati bisogna trovarli necessariamente).

Questa impostazione esige che il Ministro del Tesoro (o quello del Bilancio o quello delle Finanze) rovesci, per dir così, il suo modo usuale di considerare la finanza dello Stato e il bilancio dello Stato; tale bilancio deve essere compilato con riferimento non più al danaro ma al potenziale umano disponibile: tanti uomini da occupare, tanti danari da spendere. Deve diventare un bilancio a “scala” umana (Beveridge §182).

Evidentemente questa logica umanista rappresenta il puntuale rovesciamento del feticismo economico. Vale la pena ricordare che in effetti fu proprio su questo terreno “personalista” che Basso, citando con approvazione Jean Rivero, riteneva risiedesse il fondamento dell’accordo costituzionale (vedi Il principe senza scettro, Feltrinelli, Milano, 1998 [1958], pagg. 163-4).

4.2. E l’inflazzzione?

E infatti: inflazione significa danaro senza cose, rappresentante senza rappresentato; ma se le cose ci sono e c’è il danaro che le rappresenta, dov’è l’inflazione? Se cresce la popolazione (e, quindi, la spesa) è chiaro che deve crescere anche “a parità di velocità di circolazione “il volume del danaro che circola. L’inflazione c’è soltanto quando alla crescita della circolazione “a parità di velocità” non corrisponde una crescita proporzionata della produzione. E’ così chiaro!

E allora: se spendo un milione di lire per costruire un milione (anzi più) di case, o per bonificare un milione di terra, o per produrre un milione di energia, dov’è l’inflazione?

  1. Inutile dire che l’intervento di La Pira suscitò un vespaio di polemiche. I documenti della discussione non sono facilmente reperibili, qualcuno è anche inedito, ed è quindi merito notevole di Roggero averli raccolti.

5.1. La prima questione sollevata fu relativa all’uso diretto del Vangelo nella discussione politico-economica. Sul punto mi pare si possa concordare con Roggero (op. cit., pagg. 71-2), e riconoscere a tale impostazione almeno il pregio della chiarezza:

gli economisti non amano, né hanno mai amato, rendere esplicite le premesse filosofiche sulle quali si fondano il loro ragionamenti. C’è una sorta di « pudore per le premesse » che caratterizza larghissima parte del pensiero economico così come s’è venuto sviluppando nella sua storia. C’è, in ogni opera di un economista, una specie di dissidio segreto fra ciò che resta implicito e ciò che viene detto apertis verbis, fra quello che si legge e quello che non è scritto.

Ciò da cui l’autore ci esclude, ciò che inconsapevolmente ci nasconde è la visione del mondo, l’immagine sintetica, la metafora, in una parola la sua premessa non economica. Ed è appunto verso la decifrazione dell’implicito che è rivolto lo sforzo maggiore dell’interprete. In La Pira l’implicito non ha spazio, tutto è esplicito, alla luce del sole. Ed è così che egli, in un certo senso, obbliga il suo critico a rompere la convenzione, a uscire dal pudore dell’implicito per discutere direttamente le premesse.”

5.2. Quanto all’aspetto propriamente religioso, “soltanto un esegeta che sia esperto « scritturista » può difendere o biasimare il procedere di La Pira. Soltanto lui infatti ci può dire se l’impiego di quella parabola, nel contesto dell’argomentazione economica, rispetta il suo significato più vero: giudizio senz’altro impegnativo se si considera che anche le interpretazioni di medesimi passi evangelici subiscono nel tempo mutamenti d’accento a volte anche non del tutto irrilevanti.” (Ibid., pagg. 93-4).

Io “scritturista” non sono e quindi mi taccio.
Può essere però interessante, parlando di credenze, esaminare, tra le risposte polemiche alle Attese, quella, grondante ironia, del nostro vecchio amico Ernesto Rossi, che in un articolo su Il Mondo (La finanza in paradiso) del 13 maggio 1950 (il testo è riportato nel volume curato da Roggero, pag. 249 e ss.) così ci delizia: “Nei primi anni del mio insegnamento all’Istituto tecnico diverse volte ho dato ai miei studenti da svolgere il tema: « Perché non si risolve la questione sociale stampando tanti bei bigliettoni da mille e distribuendoli ai poveri? ». A questa domanda l’on. La Pira, in sostanza ora risponde: « perché il Ministro del Tesoro non è un buon cristiano ».

È questo che ho spesso osservato agli esperti keynesiani. Non si capisce per quale ragione essi siano così moderati nelle loro richieste. Se è possibile proporzionare il reddito alla spesa con manovre monetarie, sono tanti e poi tanti i bisogni essenziali che potrebbero essere soddisfatti aumentando la capacità d’acquisto dei lavoratori.

Pare che la difficoltà maggiore per tali esperti sia di trovare un modo per fare entrare i biglietti in circolazione. Si strizzano il cervello come un limone per escogitare i più complicati meccanismi che consentano di superare questa difficoltà: si potrebbero dare i quattrini a chi fa delle buche, oppure a chi esporta merci che gli stranieri non sono disposti a pagare, oppure ai lavoratori occupati ed ai datori di lavoro, rovesciando il sistema delle assicurazioni sociali… Ma, santo cielo, non si preoccupino, li facciano distribuire dagli aeroplani, troveranno sempre qualcuno disposto a raccoglierli, a meno che non ci sia sopra la réclame di Armido Banfi. E ci penserà poi il moltiplicatore ad accrescere la ricchezza generale.

Quando, in questo modo, avremo risolto il problema sociale in occidente potremo poi passare alle centinaia di milioni di uomini di colore che aspettano il nostro aiuto in Africa, e in Asia: ai miserabili fellah egiziani, agli intoccabili indiani, ai coolies cinesi.”

Mancava solo la pizza di fango del Camerun e poi l’assortimento era completo.

Ovvero, con tutte le professioni di laicità del coautore del Manifesto di Ventotene, almeno rispetto al feticcio monetario, era in realtà assai più laico La Pira di Rossi.

  1. Non bisogna comunque credere che le posizioni lapiriane venissero accolte con unanime consenso nel mondo cattolico, come le stesse osservazioni di La Pira nella Difesa, che ho riportato sopra (e la cui vicinanza al pensiero hegeliano mi pare meritidi essere segnalata), chiaramente indicano.

Roggero riporta una gustosa lettera di Sturzo a La Pira (Ibidem, pagg. 63-4), che ci consente di ricollegarci alla questione posta all’inizio del post e arrivare alle conclusioni:

Certi cattolici dovrebbero finirla di vagheggiare un marxismo spurio (così Sturzo definisce il keynesismo) buttando via come ciarpame l’insegnamento cattolico sociale della coesistenza e cooperazione fra le classi e invocando una specie di socialismo nel quale i cattolici perderebbero la loro personalità e la loro efficienza”.

Bordata contro il keynesismo pressoché identica a quella di Einaudi. Non si tratta di una vicinanza casuale o episodica.
Non solo Einaudi nominò Sturzo senatore a vita ma ne fece un elogio in polemica con Salvatorelli, che in un articolo sulla “Stampa”, a commento di una raccolta di scritti di Sturzo curata da Gabriele De Rosa, aveva attribuito a Sturzo una continuità “dal suo clericalismo temporalista di fine ottocento al suo liberismo antisociale di questi giorni.

6.1. Ed ecco ovviamente insorgere Einaudi: “Qualsisia fosse il punto di partenza di Luigi Sturzo alla fine dell’Ottocento, oggi il suo punto di arrivo non è certamente quello definito dall’insigne storico con le parole da me sottolineate.

In primo luogo non posso far gran torto allo Sturzo attribuendogli un « liberismo » che, se è quello corrente nella accezione comunemente invalsa, è un fantoccio (vedi in questa dispensa a p. 391) di cui nessuno studioso serio conosce l’esistenza, fantoccio inventato da chi attribuisce agli economisti idee che essi non hanno mai professato. Non posso far quel gran torto a Luigi Sturzo perché, assiduo lettore dei suoi articoli sul «Giornale d’Italia», vedo che egli difende le opinioni antistatalistiche, antidirigistiche, antisocialistiche non solo con gli argomenti della logica comune, di cui, per ragion di divisione del lavoro, si servono preferibilmente gli economisti, sebbene, e massimamente, con riflessioni d’indole politica e morale. 
Sturzo è contrario alle idee che combatte non tanto perché sono cagione di danno economico — ed il certo danno economico è tuttavia il minore —, ma sovratutto perché corrompono la società politica, asserviscono gli uomini, conducono alla tirannia ed alla immoralità. Egli, in quanto antisocialista, antidirigista ecc. ecc. non vuole il «liberismo» che è cosa piccola; vuole il «liberalismo» nell’ampio senso tradizionale suo proprio.

Al suo, che dal Salvatorelli è denominato « liberismo » e da me invece « liberalismo », non si può in ogni modo apporre l’aggettivo « antisociale ».

Le ragioni per le quali ritengo erronea la taccia di «antisociale» mossa al liberismo (e cioè al liberalismo) di Sturzo sono state ripetutamente da me esposte […] sicché qui posso ristringermi ad affermare che la proposizione essere il «liberalismo» antisociale è accettabile solo da chi appartenga alle correnti socialistiche, dirigistiche, corporativistiche e simili; o, senza appartenervi, ne accolga implicitamente i metodi storiografici.

Chi invece ritenga essere quelle concezioni e quei metodi lontani dalla realtà e dal vero, e viva nel mondo spirituale del liberalismo, è persuaso che socialismo, dirigismo, corporativismo, statalismo sono essi antisociali, perché cagione di miseria economica, di discordia sociale e di tirannia politica e che il liberalismo promuove invece l’elevazione dei più, la stabilità sociale e la libertà politica.

Queste tesi dei liberali non sono nuove. Posseggo un esemplare della seconda edizione della Ricchezza delle nazioni di Adamo Smith, con legatura contemporanea (1778). Fin d’allora, il possessore del libro, il quale, diverso in ciò dai commentatori odierni, l’aveva evidentemente letto, aveva fatto incidere sul dorso una colomba portatrice del ramo d’olivo; simbolo di pace e di concordia fra i popoli, e frutto di quella libertà di muoversi del pensiero, delle cose e degli uomini, che è connaturata al liberalismo, antico e nuovo. La colomba smithiana fu ed è annunciatrice di pace e di avanzamento politico sociale; laddove le colombe odierne sono il segnacolo in vessillo di guerre e di discordia!

(La “colomba smithiana”: immagino che indiani e cinesi ne ricordino con affettuosa nostalgia il pacifico frullio).

Quanto sopra è tratto da “Liberismo o liberalismo o della continuità di Sturzo” in Prediche inutili, Einaudi, Torino, 1959, pagg. 379-81.

  1. Questo con buona pace di chi vagheggia rinnovati “sturzismi”.

Ovvero, di là dalle più o meno insultanti o accattivanti caratterizzazioni elargite dai media, c’è il modello costituzionale da un lato e i (neanche tanto) vari gattopardismi liberali, dall’altro. Senza con ciò negare che la criticità della situazione possa giustificare gradazioni di giudizio, ma anche senza evitare di chiamare le cose col loro nome.

Quarantotto 16:15

Condividi

5 commenti:

  1. Luca Cellai14 febbraio 2019 11:34
  2. “Nei primi anni del mio insegnamento all’Istituto tecnico diverse volte ho dato ai miei studenti da svolgere il tema: « Perché non si risolve la questione sociale stampando tanti bei bigliettoni da mille e distribuendoli ai poveri? ». A questa domanda l’on. La Pira, in sostanza ora risponde: « perché il Ministro del Tesoro non è un buon cristiano ».”

    Curioso che La Pira, a giudicare da questi scritti, sembra non abbia fatto tesoro della costituzione repubblicana (appena promulgata) per sostenere la sua opera di governo.

    Per lui il richiamo al vangelo aveva evidentemente un valore operativo superiore al richiamo alla costituzione repubblicana, e probabilmente non solo perché era credente, probabilmente non voleva riconoscere gli argomenti comunisti e socialisti.

    Ma se della iniziale predicazione di vita comunitaria paolina (e via via fino al movimento degli spirituali francescani) non ne è rimasta traccia nel cristianesimo, se la soluzione al problema ‘dell’imbarazzo della ricchezza’ che si è sviluppata negli ultimi secoli è la dottrina sociale della chiesa, a che pro cercare supporto in una tradizione cristiana che in 2000 anni non aveva (e non ha) prodotto nessun risultato degno di nota?

    Probabilmente il suo avvicinamento a Keynes fu limitato dalla non conoscenza tecnica dei saldi settoriali in una economia aperta e questo presumibilmente lo portò nella sua eroica azione sociale a richiamarsi alla sua etica ‘cristiana’ (comunque minoritaria nella chiesa) più che alla prassi economica e politica.

    Chiudo questa riflessione con una risposta alla domanda iniziale ‘Perché non si risolve la questione sociale?’.

    La questione sociale, che come l’umanità è un continuo divenire, non si risolve non perchè non ci sono abbastanza cristiani (che se anzi fossero tutti cristiani dem-einaudian-sturzisti sarebbe pure peggio), ma perchè il parlamento, il governo (ed i ministri economici TUTTI) non credono (in primis) e non si sacrificano (in secundis) per la costituzione repubblicana!

    Con gli imminenti accordi stato regioni sospetto pure che in uno stato unitario che in 160 anni non ha mai conosciuto la convergenza economica nord-sud non rivedremo neanche più la crescita (ormai assente da 20 anni).