RICORDO IL FOSFORO DI CROTONE. PENSO ALL’ILVA DI TARANTO

Era il ’93, e il giornale mi mandò a coprire i disordini che stavano avvenendo a Crotone. Operai di una fabbrica  pubblica in perdita,  di cui era stata decretata la chiusura dal governo (Ciampi),  stavano bloccando strada e binari ferroviari,e bruciavano  la pericolosa sostanza che producevano  nella  vecchia fabbrica: fosforo.

La solita, incivile rivolta di meridionali sussidiati, si capiva. Quando arrivai all’interno della fabbrica, superando i posti di blocco della polizia, un gruppo di uomini in canottiera ci ricevette, noi giornalisti,nella piccola ombra che proiettava un capannone.  Fra tipi in canottiera  e calzoni corti, ce n’era uno  sulla sessantina: era l’ingegnere. Stava lottando con i suoi uomini per far vivere la fabbrica. Era di Padova.

In breve, ci raccontò la storia. Grazie alla nuova abbondanza d’acqua  dovuta allo  sbarramento  del Sele (opera fascista),  e al porto dove arrivava per nave il minerale grezzo  dall’estero, il duce aveva fatto piazzare lì  questa fabbrica per la produzione del fosforo, elemento essenziale in molte lavorazioni  chimiche.  Ma adesso, il prezzo del fosforo era caduto  sui mercati mondiali, e Ciampi  aveva ordinato la chiusura della fabbrica, perché in perdita. Secondo l’ingegnere,  erano i produttori cinesi che  facevano dumping,  vendevano sottocosto;  appena fosse stata chiusa la fabbrica di Crotone, avrebbero rialzato i prezzi, sicché l’Italia  sarebbe tornata a  pagare di più (e in dollari) quel prodotto che era, momentaneamente, conveniente.

Quanto stava perdendo la fabbrica di Crotone? Se non avesse venduto  nemmeno un etto di fosforo, rispose l’ingegnere in canottiera,  sarebbe stata una perdita di 12 miliardi di lire annui, circa 6 milioni di  euro oggi (diciamo, quel che spreca ATAC in un mese); ma naturalmente un minimo di volontà imprenditoriale avrebbe ridotto la perdita,magari facendo contro-dumping ai cinesi.

Non ci fu niente da fare.  “I mercati” avevano decretato la fine dell’azienda, lo Stato “risparmiava”  quel costo,  Ciampi  stava “risanando” l’economia nazionale.

La falsità di questa  pretesa “razionalità” neo-liberista, la sua natura ideologica, di alta dannosità sociale, saltava agli occhi. Anzitutto, allo Stato – se volete, a noi cittadini come contribuenti – quella  chiusura costava assai più di  quei 12  miliardi di lire teoricamente risparmiati: basta pensare alla cassa integrazione per i 300  operai, ma soprattutto l’incalcolabile  costo sociale e morale dell’aver privato una cittadina meridionale di un centro di cultura industriale (di cui il Sud ha così disperatamente bisogno),  dei 300 salari, dell’indotto, persino dell’istituto tecnico locale che formava tecnici per la fabbrica del fosforo, un patrimonio di competenze, di orgoglio, di  onestà e dignità che sempre (lo vedevo a Milano) conferisce all’operaio la fabbrica.  A nome del “mercato” internazionale, Ciampi aveva “esternalizzato” i costi   sociali ed economici  e morali (persino la droga aumentò negli anni seguenti fra la gioventù crotonese)  ossia li aveva accollati alla  cittadinanza.  A tutti noi.

Naturalmente, il neoliberismo era di gran moda, e la propaganda ci diceva che Ciampi stava riformando lo Stato, “inefficiente”  imprenditore,  lo “snelliva”  tagliandone tutte le attività produttive retaggio del passato statalista, e restituendole al “libero mercato”. In realtà, accumulava costi su costi, accollandoli a noi. Altrimenti non si capisce perché, ad ogni tornata di “privatizzazioni” di imprese pubbliche inefficienti, Ciampi (e Amato,  e Prodi) facevano seguire una “finanziaria lacrime e sangue”, ossia un prelievo fiscale  straordinario  e gravosissimo che annichiliva potere d’acquisto a noi privati, e  segava gli spiriti animali imprenditoriali. Vendeva, vendeva, e intanto il debito pubblico, invece di calare, aumentava.
Con la vendita della Nuovo Pignone (invano i sindacati andarono in ginocchio da Ciampi ad implorarlo di non farlo), mi fu chiaro che il “venerato maestro” (venerato dai media), il  grande “tecnico banchiere”  e futuro presidente della repubblica tanto umano, era un traditore della patria. Perché, se è chiaro che Ciampi stava eseguendo delle istruzioni  ricevute  (di economia non ha mai capito nulla, non esiste un solo studio  scientifico a sua firma),  poteva anche sì ritenere che privatizzare fosse suo dovere verso i “mercati”:  ma che vendesse deliberatamente e sistematicamente in perdita, perché? Nel settembre 1993, Ciampi vendette a Nestlé e Unilever e a un italiano che sta in Svizzera, le aziende alimentari dell’IRI-SME , per 750 miliardi: mentre il gruppo aveva un fatturato di 3 mila miliardi.  La privatizzazione delle tra  grandi banche pubbliche,  che tolse allo Stato ogni potere sul credito, avvenne alle stesse condizioni; e così la siderurgia, le assicurazioni, le privatizzazioni del gruppo ENI,  la telefonia, l’elettricità.

E Si noti: la  svendita fu resa ancor più conveniente per gli acquirenti stranieri, dalla svalutazione della lira provocata dall’attacco speculativo di Soros: anche questa ottenuta da Ciampi – allora  in veste di governatore di Bankitalia –  (Amato capo del governo) con una operazione di cui spieghiamo in breve le fasi. Soros vende lire allo scoperto; Ciampi (e Amato) spendono le riserve nazionali in marchi  e dollari e valute forti  per acquistare lire, onde “sostenerne”  il corso e mantenere agganciata al “serpente monetario” (SME) la nostra valuta. Operazione che si sapeva già destinata a fallire, perché sarebbe occorso il sostegno  illimitato della Bundesbank, la banca centrale tedesca; ciò era previsto dagli accordi SME.

Ma la Bundesbank, interpellata, aveva rifiutato  di rispettare tali accordi.

(Emergenza o putsch?)

A quel  punto, bisognava subito abbandonare  la  cosiddetta “difesa”. Che non  fu altro che un buttare dalla finestra – arricchendo Soros ed altri speculatori accodatisi (fra cui  certi  amici italiani) praticamente tutte le riserve valutarie  della  nazione.  L’equivalente di 48 miliardi di dollari Usa fu così incenerito dal governatore, per trovarsi alla fine con  una montagna delle lire acquistate – e  svalutate del 25% .  Ovviamente chi voleva acquistare aziende italiane da privatizzare,  o anche aziende private,  lo poté fare con quello sconto.

Un’azione  dannosa di tale e plateale entità, che non basta a spiegarla l’incapacità del governatore: col senno di poi, vi si deve vedere una concertata, coerente e prolungata operazione  di deliberato depauperamento dello Stato italiano, di dequalificazione dei lavoratori, di deprivazione di industrie avanzate o di alta tecnologia  via “privatizzazioni” (aviazione, elettronica, difesa) per farlo “entrare  in Europa” (Il trattato di Maastricht era stato appena firmato, nel febbraio 1992)  in condizioni di inferiorità e di autonomia economica degradata.

Altrimenti non si spiega come, dopo l’insensato  e costosissimo fallimento nella pretesa difesa della lira, Ciampi venga messo a capo del governo da  Scalfaro, come venerato “tecnico”: Si noti, dopo  che il governo Amato si dimette (aprile 1993) senza aver ricevuto il voto di sfiducia in parlamento, e Ciampi passa da Bankitalia al governo solo quattro giorni dopo. E’ praticamente un putsch:   è la seconda volta nella storia d’Italia che un capo del governo viene scelto fuori dal parlamento – il primo essendo stato, il 25 luglio ’43, il generale Badoglio.  Sono i mesi in cui infuria Mani Pulite, che annichila i partiti, specie il PSI di Craxi, si sbattono in galera il presidente dell’ENI Cagliari (suicida), si “suicida” Gardini della Ferruzzi… Nel giugno 1992, lo yacht della regina di Inghilterra, il Britannia, appare al largo di Civitavecchia e  – in territorio  britannico – salgono dirigenti italiani dell’IRI   che discutono le privatizzazioni con banchieri americani e inglesi. Il discorso viene introdotto da Mario Draghi, allora  funzionario del Tesoro. Ciampi accelera le privatizzazioni, coadiuvato da Romano Prodi  rimesso alla presidenza dell’IRI per smantellarla.

E tutto ciò – privatizzazioni e il resto – non avvengono affatto come operazioni “di mercato”, ma al contrario: come imposizioni di Stato. Di uno Stato, s’intende, il cui centro è stato occupato da una centrale di potere auto-distruttiva.

Le  vendite-svendite a stranieri  hanno anche un altro effetto: “Attraverso il trasferimento all’estero dei profitti e  dei risparmi, all’esterno dunque del sistema produttivo nazionale in luogo del loro sviluppo interno, si innesca a nostro danno un potente meccanismo di sottosviluppo”  (Antonio Venier, Disastro di una nazione, Ar, 1997).

Così ci hanno fatto entrare nella UE. “Il patto di stabilità”, approvato dai nostri politici nel ’97, “provoca conseguenze gravemente dannose perché impedisce le politiche economiche espansionistiche in periodo di recessione e disoccupazione”. Il divieto  di superare l’arbitrario 3% del  Pil come deficit annuo,”condanna il nostro paese alla recessione permanente. E’ infatti noto, e confermato dall’esperienza di questo secolo, che il solo mezzo possibile di rilancio dell’attività  economica in un paese industriale consiste nella spesa da parte dello Stato”, non finanziata da pressione fiscale aggiuntiva ma dal debito pubblico.

Ora, i politici hanno firmato l’obbligo insensato  di ridurre  il debito pubblico al 60% del Pil (altra cifra arbitraria), con “sacrifici” continui – e un  clima di colpevolezza morale che ci ha fatto dimenticare “che il debito pubblico è da sempre uno dei normali strumenti di finanziamento dello Stato, insieme all’emissione di moneta e al fisco”, e non già un  peccato di cui pentirsi.

Questa è  la situazione in cui, dopo esservi affondati da 20 anni  di  recessione  permanente e sottosviluppo obbligato, de-industrializzazione, con salari sempre più bassi, competenze lavorative sempre più dequalificate, e disoccupazione di massa, il popolo italiano ha cominciato, oscuramente,  a volersene liberare.

 

Venerati Maestri

 

Oscuramente, ossia senza una cosciente consapevolezza e cultura di cosa sia l’economia politica, e in cosa si distingua dall’economia di mercato. Me lo lascia intuire la volontà dei  5Stelle in Puglia di voler  chiudere l’ILVA  e sostituirla con gli uliveti.  I giovani meridionali colti da pulsione ecologico-antindustriale, non  conoscono per esperienza  il costo sociale e morale  dequalificante, mortificante,  che ha pagato la piccola comunità di Crotone per la chiusura di una ditta con 330 operai.  Né possono capire che, in caso estremo di uscita dall’euro e ritorno alla moneta nazionale svalutata, l’industria italiana in ripresa immediata,  sarà costretta a comprare all’estero gli acciai che adesso  gli fornisce l’ultima industria siderurgica rimastaci.  Senza volerlo né saperlo, completerebbero l’opera di recessione e sottosviluppo permanente  dei  nemici della patria di cui sopra abbiamo rievocato i disastri.