VASCO ROSSI E UN MARZIANO A MODENA

di Roberto Pecchioli

Il concerto di Vasco Rossi a Modena, evento musicale dell’anno, è uno di quegli avvenimenti che non si possono derubricare a cronaca o confinare nella pagina degli spettacoli. Nel bene e nel male, è uno spartiacque, un segnavia, una data che esce dal calendario ed entra – a suo modo- come metafora e simbolo, nella storia del costume dell’Italia tardo moderna. Nessuna esaltazione, o entusiasmo da adepti del rocker di Zocca, al contrario. Ma neppure scuotimento di testa, o liquidazione sommaria, bensì il tentativo di riflettere su un concerto diventato evento di massa. Quando 230 mila persone pagano da 50 a 75 euro, salvo bagarinaggio, per ascoltare un cantante, e soprattutto per “esserci”, sfidando il caldo, i disagi, le code, in molti una notte all’addiaccio, non vale nulla prendere posizioni moralistiche, condannare una vera o presunta stupidità di massa e rilevare che per i mille drammi di questa nazione non si muove nemmeno l’uno per cento di chi, sabato 1 luglio 2017, era al parco Enzo Ferrari per assistere al concerto. E’ la verità, ma le chiacchiere stanno a zero.

I nudi fatti sono che un cantante ha saputo unire, emozionare, trascinare grandi masse umane, eterogenee per età, classi sociali, provenienza geografica, valori di riferimento. Un evento nazionalpopolare che non può essere liquidato né dalla boria intellettuale, né dal buon senso rasoterra da comari del mercato rionale. Vediamo allora di orientarci, ed anche prendere posizione, accettando il ruolo ingrato di marziani a Modena. Un marziano a Roma fu una sapida commedia di Ennio Flaiano. Narrava di un marziano, Kunt, la cui astronave atterrò a Roma, Villa Borghese, accolto dallo sconcerto popolare e con immensa eco internazionale, ma poi venne ignorato dall’eterna Roma del cinismo e del disincanto.  A Modena sarebbe stato trattato come un marziano chi, come noi, non avesse partecipato all’evento- il fatto in sé – tentando però di coglierne il senso, se ce n’è uno. Proprio Vasco ci mise in guardia, nel brano intitolato appunto “Un senso”, cantando “voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l’ha”.

Brutto messaggio, che fa il paio con l’apertura del concerto sulla musica di Richard Strauss Also sprach Zarathustra, Così parlò Zarathustra, famosa soprattutto come colonna sonora di 2001 Odissea nello spazio che narra un viaggio oltre l’umano che, già nel film del 1968, lambiva il transumano. Non l’Oltreuomo di Nietzsche, temiamo, ma, nel gran calderone di massa, l’esaltazione dell’opposto, ovvero degli “ultimi uomini” sudati, trasognati e sovreccitati dei grandi eventi musicali rock, Bacco e Sileno più che Dioniso.

Poi c’è Modena non per caso, provincia d’origine di Vasco, ma anche la città di Enzo Ferrari, l’eroe della velocità, il creatore dei bolidi rossi sogno di generazioni intere. Noi crediamo che sia proprio il sogno l’elemento trainante di quella mobilitazione totale (povero Ernst Junger!) che ha portato in Emilia una folla pari alla popolazione di città come Messina o Trieste. Tuttavia, ed è un primo segno che ci sembra di cogliere, nessuna vicinanza o paragone con analoghi eventi del passato. A Woodstock e all’Isola di Wight la generazione dei settantenni di oggi – in fondo i coetanei di Vasco Rossi, che di anni ne ha 65 – scrissero a loro modo la storia del costume insieme con quella della musica rock. Pace, amore e musica, proclamarono, e quella retorica zuccherosa è rimasta appiccicata per mezzo secolo come una colla. Oggi, si chiude il cerchio, siamo tutti più vecchi, la rappresentazione finisce.

Ci fu, a partire da quei giorni lontani, una ribellione insensata e spesso astratta (vietato vietare!) e poi la sessualità esibita per la prima volta, ostentata come una liberazione, o forse una regressione al puro istinto, i paradisi artificiali, la droga, i ritmi arrembanti ed ossessivi scanditi dalla batteria e dalle chitarre elettriche, lo scatenamento pulsionale che seppellì un mondo. Un passato che non passa, assorbito, quasi sussunto nel puro sfruttamento commerciale da parte del mercato che cambiò pelle da allora, assecondando con gioia malcelata il nuovo corso. Perfino Che Guevara è diventato un marchio registrato; non è diverso Vasco Rossi. La Rai che ha promosso e trasmesso in diretta l’evento, chaperon Paolo Bonolis, la rete dei cinema (circa 200!) che hanno trasmesso il tutto in diretta, i discografici che venderanno il DVD “live”, bagarini, operatori turistici di ogni tipo possono festeggiare. Il concerto è un successo economico colossale, alcune decine di milioni di euro la fattura complessiva, Vasco, come Atlante con la Terra, si carica sulle spalle l’incremento del PIL!

Naturalmente, la chiamano trasgressione, fuoriuscita dai canoni, gioia popolare. Il governo ci ha prontamente messo il cappello, non solo attraverso la televisione pubblica. Gentiloni ha parlato di festa di libertà, il ministro dell’Interno, in un attimo di pausa delle attività di favoreggiamento dell’invasione del territorio da parte dei barconi di Soros e delle ONG, si è congratulato per l’ottimo esito dell’ordine pubblico. Qualche arresto per spaccio, ampia attività di contrasto alla contraffazione (non sia mai che le royalties dei DVD e della paccottiglia targata Vasco Rossi non vada interamente alle multinazionali proprietarie dei mitici marchi!), per il resto tutto bene. Un solo morto per infarto – pace all’anima sua, Minniti non tratta queste sciocchezzuole –  e se a migliaia si saranno imbottiti di sostanze di vario genere, certo la polizia avrà avuto ordine di chiudere un occhio.

E poi, siamo antiproibizionisti, chi siamo noi per negare il libero sballo? Il Governo, intanto, come dominus: ecco il punto dolente, trasgressori professionali in servizio permanente effettivo. Voi credete di aver dato uno schiaffo al potere, tutti in massa al concerto dell’anarchico numero uno. Loro vi hanno usato senza fatica, panem et circenses, o, come preferivano i Borbone delle Due Sicilie, feste, farina e forca. Manca la forca, dite? Ma non è forca il carico delle tasse, il raddoppiato potere dell’Agenzia delle Entrate che incorpora Equitalia, non è forca la precarietà di migliaia di voi, che magari avete risparmiato all’osso per andare a Modena, non è forca la solitudine e l’abbandono di milioni di altri, forse dei vostri stessi genitori o fratelli, non è forca la trasgressione obbligatoria cui vi orientano, corse in autostrada, musica a tutto volume, bere sino a scoppiare, pasticche, polveri ed altro in gola o nelle vene, scatenamento ( ma preferiscono dire liberazione) degli istinti, compulsione, consumare tutto e subito ? Lo chiamano acting out gli psichiatri, l’agìto, consumare la vita ed i desideri, tutti, in fretta, meglio se uniti nel gregge.

Lo ha spiegato lo stesso artista in una recente intervista. Vasco ormai è nonno, dopo aver faticato tantissimo per essere padre davvero, anche per lui è tempo di bilanci. Ha detto che in fondo anche quella della vita spericolata era una routine, vivere di corsa (Vado al massimo, erano i performanti anni 80 di Reagan, della Thatcher, Milano da bere e riflusso nel privato) tornare a casa quando gli altri erano già al lavoro, litigare con chi ci manteneva. Un curioso terzo turno, diverso da quello degli operai che facevano la notte per la pagnotta. Le musiche di Vasco Rossi sono belle ed accattivanti, del resto non si spiegherebbe un successo che ha quasi quarant’anni, ma resta irresistibile il commento di Nino Manfredi al primo passaggio televisivo della Vita spericolata. “Vòle ‘na vita piena de guai, gliene dàmo un po’ dei nostri!”. Saggezza contadina del grande attore ciociaro.

I testi della canzoni tanto amate dal pubblico sono mediocri e soprattutto, equivoci. Non si chiede agli artisti di essere dei monaci, ma la vita spericolata, di nome e di fatto, quella come Steve Mc Queen, quella in cui non si dorme mai, aiutati magari da certe pastiglie, non ha prodotto più libertà, come dice il nobile Gentiloni Silverj. Ha contribuito a diffondere stili di vita distruttivi, ha banalizzato quando non propagandato apertamente l’uso delle droghe, ha decostruito quel che c’era sostituendolo con il nulla, tutt’al più con la corsa a perdifiato, tanto la vita un senso non ce l’ha. A voler essere generosi, il mondo di cui Vasco è il vessillo italiano, ha prodotto una materialistica Caduta degli Dei. Poiché ha talento, le sue musiche incantano e trascinano. Ma verso il basso, purtroppo, con l’approvazione dei superiori, che fanno tintinnare il registratore di cassa come una slot machine al momento del jackpot.

Nel caso specifico, Vasco (è comunque grande chi riesce ad essere citato con il solo nome di battesimo!) a Modena ha probabilmente recitato, con la perizia dei consumati animali da palcoscenico, il suo canto del cigno. Non contano le vecchie accuse di recita a soggetto, mosse forse da un pizzico d’invidia, che gli lanciò Jovanotti, un altro beniamino del sistema dello spettacolo che finge distanza, impegno, trasgressione (la magica parolina del nuovo conformismo). Semplicemente, anche per lui il tempo passa. L’alba chiara si trasforma lentamente in tramonto, la salute non è più quella, il ricordo, le foto ed i DVD del concerto diventeranno autentiche reliquie, col tempo. Non vorrà sciupare un immagine di eterno giovanotto ribelle presentandosi, a 70 o più anni, come profeta multigenerazionale, né, crediamo, si ridurrà alla patetica maschera di hippy della terza età di uno Shal Shapiro, quello di Ma che colpa abbiamo noi? altro inno della decadenza travestita da liberazione.

Oltra a lui, che ci ha messo la faccia e l’anima, altri due vincitori, il Mercato misura di tutte le cose, che incassa ed incasserà, perfino dalla rimozione e dallo smaltimento delle cento tonnellate di rifiuti del popolo del concerto, ed il potere politico, che ha capito al volo, ed ha trasferito nell’evento modenese, neutralizzandolo, tutto il potenziale di rabbia, disagio sociale, opposizione di centinaia di migliaia di persone. Da millenni, e senza bisogno di Freud, della proiezione o della sublimazione, chi comanda sa che la vita spericolata spiace al potere. Meglio cantarla, far sognare e poi, fatti o semplicemente disfatti per la fatica e l’emozione, tornare a casa e tirare la vita. Cantiamo “siamo noi, siamo solo noi,” ma il gioco lo comandano sempre loro. Ci lasciano urlare e sfogare tutti insieme per una notte, per di più ci fanno pagare il conto. Il banco, riconvertito in società dello spettacolo, vince sempre, ed i cornuti sono pure contenti.

In mezzo secolo, gli artisti della musica, specie quelli delle varie anime del rock, sono stati i più potenti alleati di un sistema che ci sta portando ad un pietoso declino. Rimossa la figura del padre, ridicolizzata la famiglia, screditata qualunque forma di ordine civile e morale in nome della lotta all’autorità, ci consoliamo con le canzoni. Anche nonno Vasco, ringraziato il pubblico pagante, ripiegati gli abiti di scena, riposta la chitarra nell’apposita custodia sponsorizzata, torna a casa. Mette le pantofole, abbraccia il nipotino, probabilmente si sottopone alle terapie a protezione di una condotta disordinata. Ha fatto felice tanta gente: la prestazione, anzi la performance, è stata degna di una carriera straordinaria.

Resta una grande domanda inevasa: perché la folla si riunisce solo per eventi di questo tipo? Pensiamo anche all’imbarazzante serata torinese con la fuga di massa tra bottiglie infrante di trentamila convenuti da tutta Italia per assistere in piazza alla finale di Coppa dei Campioni. Al di là della legittima passione sportiva, ed oltre gli eventi di Piazza San Carlo, dovrebbe essere chiaro a tutti che lo sport professionale, specialmente il calcio, non è altro che un’industria quotata in Borsa, e accapigliarsi, talvolta persino morire per questo non è rispondere ad un’appartenenza o ad una bandiera, ma gioire per l’arricchimento altrui. Ancora non ci sono, per fortuna, tifosi dei titoli quotati in Borsa che esultano se sale il MIB 30 e piangono per un calo del Dow Jones senza essere investitori.

Lasciamo la risposta al quesito iniziale a sociologi e filosofi, ma almeno due elementi ci sembrano chiari. Al di là dei gusti, delle preferenze e delle tifoserie – musicali, sportive o di altro tipo- c’è un desiderio inevaso di stare insieme, di essere comunità, di gioire ed anche soffrire per qualcosa che unisce. E poi, un’ansia nostalgica di identità, di appartenenza, di avere una bandiera, dei simboli da amare, altri da odiare rispecchiandosi nel vicino, finalmente amico, non più competitore, come nella giungla di ogni giorno.

Non crediamo che Vasco Rossi, la Juventus, la Sampdoria, la Ferrari o la rock star del momento rispondano alle esigenze di cui sopra. Al contrario, sono falsi miti, oppio dei popoli, come avrebbe detto il vecchio Marx che sapeva di struttura e sovrastruttura, addirittura imbrogli organizzati dal potere. Ma è stato facile convincere del contrario gli eterni Peter Pan che siamo diventati. Vietato vietare, ma innanzitutto, proibito crescere, diventare adulti, assumere responsabilità, farsi carico. Meglio la vacanza continua, dove vai ad agosto, Sharm o Maldive, e poi, nel week end (fine settimana non si può dire) mi rilasso in discoteca ed al mare. Dicono proprio “mi rilasso”, dimentichi di code, spese, promiscuità, scarichi di CO2.

Poi, arriva il giorno dopo, con la delusione, la disillusione, il Paese dei Balocchi che non c’è più, e neppure l’Omino di Burro con il suo carro trainato da asinelli. Ci ha consolato Vasco, a caro prezzo. Poi, torna la realtà, che ha il pessimo vizio di tornare a galla. Siamo noi, siamo solo noi, anzi siamo soli noi. Dovremmo essere soddisfatti: in qualche modo, ci hanno dato ciò che avevamo chiesto, per il tramite dell’artista. La vita spericolata l’abbiamo avuta, ed anche piena di guai. Steve Mc Queen è morto da tempo e non può dirci come la pensa.

Restiamo marziani, questo ci è chiaro, ma non riusciamo a identificarci con i 230 mila di Modena, anzi, sotto sotto facciamo il tifo per governo Gentiloni, industria musicale, show business che hanno vinto ancora. Vi ribellerete, immaginiamo, solo il giorno in cui vi toglieranno Vasco e la finale di Coppa dei Campioni. Tranquilli: loro lo sanno, e non lo faranno mai.

Noi pochi, noi pochi infelici, noi banda di ribelli, ce ne torniamo su Marte, nel giorno di Vasco, Crispino e Crispiano…

ROBERTO PECCHIOLI